domenica 29 dicembre 2013

Lisistrata e la risata delle donne

Coro di vecchi: Che sei venuta a fare con quell'acqua, maledetta?
Coro di donne: E tu col fuoco, vecchia carcassa? Vuoi bruciarti vivo?
Coro di vecchi: No, voglio fare un rogo e bruciarvi le tue tuniche.
Coro di donne: E io con quest'acqua voglio spegnerlo.
Coro di vecchi: Spegnere il mio fuoco?
Coro di donne: Te lo farò vedere subito.
Coro di vecchi: Non so se devo arrostirti sull'istante.
Coro di donne: Se sei sporco, ti farò fare il bagno.
Coro di vecchi: Tu a me, disgraziata?
Coro di donne: Come per una festa di nozze.
Coro di vecchi: Sentite che sfrontatezza?
Coro di donne: Sono una donna libera.
Coro di vecchi: Ti farò smettere io di gridare.
Coro di donne: Non sei mica al tribunale.
Coro di vecchi: Su, bruciale i capelli, torcia.
Coro di donne: Su, acqua, fa il tuo lavoro!
Coro di vecchi: Povero me!
Coro di donne: Era troppo calda?
Coro di vecchi: Ma come calda! La vuoi smettere? Che fai?
Coro di donne: T'innaffio; così rifiorisci.

E poi continua, Lisistrata con le donne greche, a occupare l'acropoli di Atene, a tenere testa agli uomini, a scioperare in amore per dimostrare che la guerra e la violenza fanno male perché privano di ciò che fa bene.

Mi è venuto in mente questo scambio duro e senza esclusioni di colpi verbali leggendo l'articolo di Christian Raimo O ti meno o ti proteggo, che ripercorre i pro e i contro, soprattutto i contro, delle ultime campagne di sensibilizzazione sul tema della violenza conto le donne. D'accordo con lui - quanti disagi vivono gli uomini, con quanta rabbia e violenza implose convivono, quanta educazione sentimentale va fatta, e a me la faccia assolutamente nella parte di Alessandro Gassman (ma non si scrive con una "n" finale, in italiano e non in tedesco, come invece nel manifesto pubblicitario?) dà fastidio e sortisce l'effetto opposto, cioè fuori parte -, non posso non ricordare anche il video della campagna inglese del 2001 We are man. Ecco, fa ridere, fino a un certo punto, e a quel punto le risate precedenti interrotte di colpo acquistano un significato più forte. 

Siete disposti, uomini, a ridere di voi? Siamo disposti a prenderci in giro e metterci a nudo senza violenza? Portiamo i bambini e i ragazzi a teatro a vedere le donne sul palcoscenico che fanno ridere? Mamma e papà all'ora di cena possono scherzare da pari a pari senza mai umiliazione? In ufficio si accetta la collega simpatica con la stessa disinvoltura del collega istrione? 

Scusate il grassetto;-)



Suoni in centrifuga

Un posto che offre suoni e crea nuovi modi di vivere, addirittura.
Ma non è un posto fisico, così come le cartoline che in questi giorni scelgo e ascolto non mi arrivano a casa, compaiono invece come in un puzzle a sorpresa sul mio computer.

Sto parlando di Soundry, un sito in cui è possibile ascoltare, o inviare, cartoline sonore, un regalo di Natale che continua tutti i giorni dell'anno.
Oltre alle cartoline è naturalmente possibile scoprire anche tanti altri progetti sonori che artisti da tutto il mondo - perché di artisti si tratta, mettila come vuoi - realizzano stuzzicandoci l'orecchio e la curiosità.

Buon ascolto.



lunedì 23 dicembre 2013

Pattinare sul ghiaccio, pronti a cadere e a rialzarsi

L'altro ieri ho invitato un amico a pattinare sul ghiaccio. L'ho fatto senza pensarci, me ne scuso. L'ho fatto perché mi piace, l'amico e il pattinaggio sul ghiaccio. L'ho fatto perché in tv stavo vedendo una delle tante commedie di Natale made in Usa, tutte bontà e colori rosso e bianco, e la protagonista si infila i pattini e fa qualche piroetta. Insomma, un invito non ha bisogno di giustificazioni, anzi, non era neanche un invito, perché io a pattinare ci andrò a prescindere. In compagnia però può essere più divertente, soprattutto se non si è capace, e parlo per me.

Ma ecco il problema: l'invito è stato educatamente accolto ma altrettanto educatamente non troverà seguito perché il ragazzo non sa pattinare e, diversamente da me, considera questo un bell'impedimento tanto da dirmi che essendo stato in pista solo una volta... no, forse non si potrà fare.

Non me me vorrà se lo prendo come esempio - me ne vorrà invece, ma fa niente - per riflettere insieme su come la testa a volte frena il desiderio che parte dai piedi, un po' come accade a chi non balla per scelta di vita ma che passa la serata a muovere le dita, dei piedi e delle mani, battendo il tempo o che non canta ma canticchia la melodia che già sa a memoria e che, no, sono stonato, la mia voce non te la do neanche se mi strappi le corde vocali.

Ci avete fatto a caso a quanti freni mettiamo a quella voglia improvvisa di muoverci e metterci alla prova proprio su strade che non abbiamo mai percorso? E' la tentazione di tirarci su e magari inciampare e poi invece si rimane col sedere attaccato alla sedia, al divano, al ghiaccio se siamo caduti. Magari! Vorrebbe dire che abbiamo tentato. Certo, poi c'entra anche il fattore età: pare che dopo i trenta, ma forse anche prima, nessuno possa più permettersi di sbagliare ed essere imperfetto, poi magari si ricomincia coi tentativi dopo i cinquanta, quando certe inibizioni si sono sciolte in una risata e si fa di nuovo gruppo più facilmente. Chissà.

Gli inviti si fanno per le cose che ci fanno stare bene, contengono tanto egoismo quanto dono.
Sono stata a pattinare sul ghiaccio pochissime volte e uso il verbo "pattinare" impropriamente, visto che l'azione che compio è stare attaccata al corrimano, lasciarmi andare e forzare il compasso fino a raggiungere il centro, lì sentirmi smarrita ma tanto felice. Chilometri di autostima che va in pezzi e si ricompone finché reggono le gambe e il fiato.

Ovviamente non ho considerato che il ragazzo in questione non sia interessato non tanto all'invito quanto a chi l'ha fatto, del resto non avrei potuto altrimenti scrivere questo invito e questo augurio di Natale a tutti noi, me compresa: trovare la propria pista di ghiaccio e pattinare "così come viene". Proprio così ho detto, "così come viene", senza ansie di nessun tipo, nessuna aspettativa, solo i rossi in faccia, pronti a cadere e poi rialzarci. Ecco, è anche l'augurio per il 2014.

Buon Natale e buon anno nuovo.


giovedì 19 dicembre 2013

Le formule degli auguri di Natale

Si arrovella l'azienda nel cercare la formula d'auguri che includa i cristiani ma non faccia danni alle relazioni con coloro che professano altre religioni, si chiede l'inquilino italiano se debba fare gli auguri al vicino di casa egiziano per cui forse è Natale anche per lui, magari spostato un po' in avanti nel calendario che conosciamo, rivendico anche per me i dolci e dolcetti che la collega tanto devota ha regalato negli anni ai ragazzi mentre per le ragazze dello stesso ufficio ha preferito libri di stampo religioso.

E' buffo il Natale quando mette a nudo il politically correct nostrano e ci permette di riderci su.

Il Natale però esiste non solo in Italia e non solo in Europa: diverse e simili sono le usanze sociali e religiose che arrivano in Giappone, in India. In Germania e nell’Europa del Nord l’albero di Natale e le luci che ci piacciono tanto derivano dalle feste pagane, in primis da quella che saluta e ringrazia il sole. Esiste se siamo cristiani, e ricordiamo perciò la nascita in Medio Oriente del bambino ebreo “figlio di Dio”, esiste se lo identifichiamo col cappello rosso e la faccia barbuta e rubiconda del vecchietto che è finito in America e tornato in Italia distribuisce ancora regali ai bambini, e pensare che era partito come san Nicola, e non era ciccione.

Auguri natalizi -
fonte, islamitalia.it
Abbiamo ogni riferimento “scientifico” per scrivere e per dire la parola "Natale" negli auguri che ci scambiamo, del resto lo facciamo spontaneamente senza chiederci se crediamo a “quel” bambino – ma a un bambino che nasce ci crediamo sempre anche se non è Salvatore, prova è la sua esistenza e i nostri sorrisi sempre un po' beoti davanti a un neonato –, oppure se preferiamo le lucette sul balcone o se siamo più per il presepe o l’abete, di plastica o quello vero.

E allora buon Natale con buona pace di chi vive un’altra religione, di chi la questione non se la pone proprio, di chi in nome di una religione muore, di chi si ostina a fare regali sbagliati, di chi non vede l'ora di andare in ferie, beato perché ha un lavoro tra molti che non ce l'hanno o non ce l'hanno più.

Tempo fa la semiologa Giovanna Cosenza a proposito del politically correct sul suo blog scriveva: “Una società non diventa più rispettosa dei disabili (handicappati?) se li chiama non vedenti, né i privilegiati diventano più rispettosi di chi fa lavori umili se dicono operatore ecologico, collaboratrice domestica e così via. Analogamente, un omofobo resta omofobo anche se dice gay invece di frocio”.

Se in vino stat veritas, le parole “morbide” o tra virgolette sono come il vino a cui aggiungi l’acqua: perde sapore e verità. Perdono identità. E quando perdi identità il rischio è che perdi pure il rispetto degli altri.

Eh eh, allora anche “Auguri e figli maschi” potrebbe essere considerato un invito alla fecondità che discrimina le donne e le coppie che magari non possono avere figli. “Incrociamo le dita” non lo puoi dire senza aver prima controllato che il tuo interlocutore le abbia tutte. E per ricordare il giorno della propria nascita non basta un generico e onnicomprensivo auguri, ma si pretende “buon compleanno”.

Come dire, la sensibilità è materia sensibile che passa anche per una semplice frase di auguri. E visto che ogni anno è sempre Natale, mi chiedo perché non ci prepariamo per tempo per creare formule di auguri che siano sincere e non inattaccabili e per questo fredde e fasulle. Comincerei per esempio evitando il congiuntivo, perché il congiuntivo si porta dietro frasi come "... Che il tuo cuore possa aprirsi alla gioia", "che la serenità avvolga la tua casa e la tua famiglia", userei piuttosto l'indicativo per fare un invito "Oggi pranziamo insieme, vieni?" E mi scoccia un po' che in questi giorni me l'abbia rubato il Papa.




mercoledì 18 dicembre 2013

Ancora sulle lingue

Bene, in questi giorni di rigurgito linguistico dentro di me - vedi i post precedenti - e quindi di appassionante riscoperta dell'importanza di muoversi tra le lingue per arricchire la propria personalità e la propria identità - non sarei me stessa senza poter parlare anche in tedesco, senza voler imparare qualche parola in turco prima di andare a Istanbul e di polacco prima di andare a Varsavia, e le presunte difficoltà neanche le considero - ecco l'articolo di Anna Maria Testa Perché due lingue sono meglio di una su Internazionale che mi conforta e mi preoccupa un po'.

Mi conforta perché "considero valore", facendo il verso a una nota poesia di Erri De Luca, riconoscere ed esprimersi in lingue diverse dalla propria, mi preoccupa perché mette insieme plurilinguismo e bilinguismo, il primo faccenda storica, il secondo anche solo frutto inconsapevole di una scelta d'amore.

Le nazioni moderne sono nate con lo stabilizzarsi di una lingua sulle altre lingue grazie alla stampa e alle convenienze commerciali, averne una come riferimento era utile e funzionale alla formazione di una comunità riconoscibile. Nella ristretta comunità di una famiglia in cui lui è austriaco e lei italiana e che vive a Barcellona - prendo come esempio una coppia di amici - chissà in quale lingua si esprimerà il piccolo nato, probabilmente in catalano riconoscendo i suoni di entrambe le lingue di provenienza dei genitori e scegliendo poi quella che risulterà funzionale, che non vuol dire solo utile, alla sua vita. O forse no, le scelte sono più fluide anche se mai senza difficoltà.

Conoscere due lingue anziché una sembra sia sempre un vantaggio, dai link e dai dati che riporta Testa nel suo articolo, io vorrei aggiungere che anche se i nostri genitori parlano una lingua soltanto e siamo cresciuti nella piccola Italia, riottosa a imparare e parlare bene anche solo l'inglese, possiamo farcela, possiamo gustare le lingue degli altri aprendo il cervello a suoni ed esperienze diverse dalle nostre.

Mi vengono in mente i bambini Saharawi che conosco d'estate in un programma di accoglienza e ospitalità: invasi dal Marocco nel 1975, già colonizzati dagli spagnoli, accolti in Italia e Spagna ormai da anni e da Cuba con la scusa di formazione universitaria, a contatto col francese di Algeri visto che il campo profughi più grande che li accoglie, Tindouf, è in territorio algerino, si esprimono in arabo hassania che non è l'arabo che ti insegnano i vicini di casa egiziani o l'università, eppure. Eppure capiscono le altre lingue e l'italiano lo imparano facilmente e bene, e i loro genitori dalla forte identità culturale hanno nel loro vocabolario lo spagnolo e il francese e li usano all'occorrenza, senza far confusione di quale sia la loro lingua identitaria e perché ci rimangono attaccati pur vivendo nella modernità di una città-tendopoli di cui il mondo poco o niente si interessa.





domenica 15 dicembre 2013

I nomi degli operai cinesi

Ieri scrivevo che la conoscenza delle lingue permette di conoscere e capire meglio gli altri, altre culture, di scoprirsi più curiosi, e lo facevo a partire dal libro L'identità di Amin Maalouf, che risale al 1999 ma che vale sempre, come ogni buon libro che parla dell'essere umano, prima di tutto.

Del resto imparare una lingua è un'andata e ritorno: si va verso un altro paese, si provano modi di dire e di essere, si tenta un viaggio, poi magari un altro, si conosce una persona, magari più di una, si torna da dove si è partiti e si ricomincia. Si può cominciare dall'alfabeto oppure dal viaggio e da un piatto tipico, l'importante è lasciarsi sporcare, e qualche suono resta dentro.

Ora leggo nel tumblr del giornalista Dario Di Vico che finalmente sappiamo i nomi degli operai cinesi morti nell'incendio del capannone a Prato lo scorso 1 dicembre. Anche se non conosciamo il cinese e sbagliamo la pronuncia, riscriverli è come ridargli dignità e sepoltura.

Dong Wenqiu anni 45 uomo
Su Qifu anni 43 uomo
Xue Xieqing. Anni 34 uomo
Wang Chuntao. Anni 46 donna
Rao Changjan anni 42 uomo
Zheng Xiuping. Anni 50 donna
Lin Guangxing anni 52 uomo



Il senso delle parole e quello dei fatti

Be', l'editoriale di Eugenio Scalfari di oggi non potevo non leggerlo, se non altro per il titolo "Un paese che perde il senso delle parole" e poi ero sicura che avrebbe aperto con qualche riferimento alla Bibbia e avrebbe chiuso con l'Europa. Non sono una strega e non leggo spesso quello che scrive Scalfari, ma un po' sì e poi in questi giorni di forconi da qualche parte bisogna pur ricominciare, e la Bibbia e l'Europa sono sempre buone basi per ancorare i propri discorsi, anche se io a volte, per rispetto, lascerei stare entrambe, guarda un po'.

La domanda, anzi le domande sono, perché bisogna ricominciare ogni volta, perché i "forconi" ora, perché non ripartire dallo scontrino fiscale che i negozianti a me non vorrebbero fare? Perché non riesco a trovare sui giornali di oggi la cifra drammatica dei Neet italiani che ho sentito ieri in radio, mi pare il 27% di giovani fino a 34 anni di età che non lavorano né studiano?

Cosa ho capito del movimento dei forconi è l'analisi del giornalista Lee Marshall che condivido, lo scontrino lo esigo e ogni volta inizia il teatrino col negoziante dalla memoria a brevissimo termine, dentro i Neet non c'è nessun amico o familiare che conosca ma non per questo mi sento bene, anzi molto in affanno a vivere in Italia ma anche il resto dell'Europa non mi dà sicurezza, la Bibbia se voglio la leggo per conto mio.

Buona domenica:-)


sabato 14 dicembre 2013

Lingua globale e lingua identitaria. Bisogna andare oltre

"Perché una persona possa sentirsi a proprio agio nel mondo d'oggi, è essenziale che non sia costretta, per penetrarvi, ad abbandonare la propria lingua identitaria. Nessuno dovrebbe essere obbligato a "espatriare" mentalmente ogni volta che apre un libro, ogni volta che si siede davanti a uno schermo, ogni volta che discute o riflette. Ognuno dovrebbe potersi appropriare della modernità, invece di avere di continuo l'impressione di prenderla a prestito dagli altri.
Inoltre, ed è questo l'aspetto che, a mio avviso, merita maggiormente di essere sottolineato al giorno d'oggi, la lingua identitaria e la lingua globale non bastano più. Per tutte le persone che ne hanno i mezzi, e l'età, e le capacità, bisogna andare oltre".

Lo scrittore libanese Amin Maalouf si riferisce all'inglese lingua globale e a qualsiasi lingua identitaria di un popolo, ma poiché l'identità è mobile e mutevole e composita si riferisce anche alle lingue che bisognerebbe imparare per sentire gli altri più vicini e sentirsi più immersi nel mondo. Dico io, come il cinese per capire i nuovi vicini di casa o la recente tragedia a Prato, come il turco per capire le ragioni di una protesta.

Difficile? Inutile? Impossibile? Oppure divertente, affascinante, utile? Non si perde nulla a scoprire  come si esprime un'altra persona, consapevoli di come ci esprimiamo e di ciò che siamo, senza false paure.

"L'identità di una persona non è una giustapposizione di appartenenze autonome, non è un "patchwork", è un disegno su una pelle tesa; basta che una sola appartenenza venga toccata ed è tutta la persona a vibrare.

Buffo ritrovare L'identità di Amin Maalouf per un nuovo progetto radiofonico, lo stesso libro con cui dodici anni fa entravo in radio per un programma sulla multiculturalità. Lo capisco meglio ora di dodici anni fa.