mercoledì 29 aprile 2015

Scrivere per la radio

Leggo e rileggo i consigli di Alex Chadwick su Transom.org. Lui è un giornalista indipendente che firma produzione radio incisive e memorabili, Transom è il sito che supporta la produzione e la distribuzione di contenuti e programmi della radio pubblica negli Usa.

I consigli riguardano la scrittura per la radio e sono utili per generi come il documentario, il radio dramma e, aggiungo io, anche le dirette. Ciò che li accomuna è l'equibrio, ossia la tenuta in pochi minuti delle informazioni raccolte, del tipo di contributi, della loro organizzazione nel tempo, della gestione della propria voce. 


Radio Writing With Alex Chadwick, www.transom.org
Tra i consigli di scrittura, comunque, già nel primo c'è tutto. "Shorter is Better", e "breve" non è soltanto un'indicazione di minutaggio ma di concentrazione, di pause, di parole piene, cioè significative.

"Newspaper writers can get ten facts in the first sentence of a story, and not lose anyone who is interested in the subject. Radio writers usually can’t do that.

Write short sentences. People have short memories, and short attention spans. They can lose track of meaning if too many facts are crammed into one sentence.

Write for the ear. Think of others who write for the ear.
Preachers. Poets. Songwriters.
Radio writers can learn a lot from them.

Apri il libro di poesie e se non l'hai mai fatto comprane uno o scarica il primo che trovi, sì, proprio il primo della lista, ascolta una canzone e cerca pure la versione lyrics su Youtube così fai esercizio con l'inglese e leggi il testo in originale, vai a messa e ruba il foglietto della liturgia, ascolta il prete e le sue pause, o il Papa che parla in tv. Insomma, cogli le occasioni per stare corto e datti dei limiti per rimanere nei tempi. Poi facci sapere come va. Ah, tutto questo, poesie e canzoni e messa, puoi farlo anche in italiano;-)






mercoledì 8 aprile 2015

Lo smart working? Come la vocazione per i sacerdoti

Su Twitter è #lavoroagile15 e in pochi caratteri vengono fuori le esperienze di aziende che producono tecnologia per comunicare e quindi lavorare a distanza, quelle di telelavoratori felici, le riflessioni di chi ha partecipato alla seconda edizione della Giornata del Lavoro Agile promossa dal Comune di Milano il 25 marzo scorso, chi vorrebbe ma non può, chi lascia un commento citando perfino l'esperienza dei sacerdoti "nessun timbro di cartellino, solo una grande vocazione e dedizione alla propria missione".

E' lo smart working, insomma, la possibilità di lavorare in modo flessibile nei tempi, negli spazi, nell'organizzazione.

Devo ammetterlo, allo smart working paragonato al modo in cui compiono la loro missione i sacerdoti non avevo ancora pensato, e certo è affascinante, perché richiede di essere un lavoratore maturo e consapevole che non ha bisogno del controllo di capi e azienda ma che resta fedele e responsabile mentre porta a termine il progetto... Viceversa, anche all'azienda si richiede un atto di fede, appunto, nell'affidare compiti e iniziative senza ansie e richieste di stato avanzamento lavori ogni giorno.

Tuttavia è rischioso pensare allo smart working solo in questi termini, perché proprio i detrattori di questa modalità di lavoro più flessibile potrebbero ravvisare i rischi di "essere sempre sul pezzo", "non staccare mai", insomma lavorare senza tempo e senza luogo proprio come fanno i sacerdoti, almeno quelli da manuale.

Secondo l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, in Italia solo l’8% delle aziende ha adottato pienamente il modello di lavoro “smart” di organizzazione del lavoro. Eppure già oltre metà degli impiegati, quadri e dirigenti lavora per almeno parte dell’orario secondo questa nuova modalità.

Come dire, già siamo in qualche modo sacerdoti di una nuova modalità di lavoro, sta a noi farla diventare mentalità senza cascarci dentro e farci male. Al contrario, usando i vantaggi che porta con sé per vivere in modo equilibrato ogni impegno giornaliero, recuperare entusiasmo per il lavoro e gli affetti, dare una mano all'ambiente riducendo spostamenti non sempre necessari, dare valore alle relazioni d'ufficio anche fuori ufficio. Insomma, credere che tutto questa sia possibile, proprio come i sacerdoti.

Per scoprire come fare e perché farlo sto preparando un audio documentario raccogliendo molte voci diverse che hanno accettato di ragionare con me sui pro i contro di un lavoro che mai come oggi richiede di essere ripensato nelle forme e nei tempi per essere di più dalla parte di chi lo svolge, lo cerca, lo vive senza volerlo subire.



giovedì 2 aprile 2015

Silvia e Teresa, donne sfacciate

Silvia lavora in panetteria, il pane non lo fa ma lo vende. E' giovane, sposata, ha un bambino piccolo. Qualche settimana fa si ammala, influenza che dura, ricovero in ospedale, niente di grave ma continuano anche oggi gli accertamenti per scoprire come mai sia tanto debole. Maria non ha un contratto, è "in prova", è andata al lavoro con la febbre e teme di perderlo.

Teresa lavora in una multinazionale e si occupa di finanza, è single, laureata, da ieri in malattia. Ha un contratto a tempo determinato e poco tempo per fare i controlli che vorrebbe: l'influenza quest'anno è particolarmente fastidiosa, le chiedono "quanto hai?" e non si riferiscono all'età, non sarebbe politically correct. Se la risposta è 38 non c'è sanzione sociale e si resta a casa con la coscienza tranquilla, se il numero è più basso "non è febbre" e si può fare squadra anche nell'esperienza virale.

In entrambi i casi la malattia non è un diritto ma un fastidio per la micro o macro organizzazione, in nessun caso però si sospetta l'assenteismo: troppo poco tempo in panetteria per Silvia per innescare un fenomeno, troppo tempo in azienda per Teresa per destare sospetti sulla sua produttività e sul suo senso di appartenenza. Eppure.

Eppure più di controlli, medico fiscale, allontanamenti dal posto di lavoro vale lo sguardo della società a cui forse danno fastidio: le colleghe di Silvia e l'open space di Teresa non perdonano, basta un giorno perché le due ragazze che ricevono le telefonate "carine" dei compagni di giornata siano etichettate comunque come deboli, inutili, problematiche. In un attimo le lunghe serate dietro report in inglese e la solerzia a servire fino all'ultimo cliente la vigilia di ogni giorno di festa sono state dimenticate.

A me viene il sospetto che sia proprio la malattia in sé a fare paura e anche una banale influenza deve essere allontanata: non ci si può ammalare nel frenetico mondo in cui tutti devono servire a qualcosa. Le persone che si fermano, loro malgrado, devono essere fermate a loro volta.

Silvia e Teresa sono donne sfacciate, non lo sanno ma stanno provocando reazioni nei loro ambienti di lavoro. Quindi grazie e buona guarigione.