A volte succede di trovarsi nel posto giusto al momento giusto, oppure nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Più frequente la seconda ipotesi, più frequente del passaggio della Metro B il 18 ottobre scorso a Roma.
E allora che fai? Usi l'occasione per registrare l'inferno in cui ti trovi, tu e altre centinaia di persone che vorrebbero tornare a casa dal lavoro ma restano alla stazione Tiburtina in attesa che qualcosa si sblocchi mentre l'Atac informa i signori viaggiatori che devono scendere dai vagoni per guasto tecnico e @InfoAtac su Twitter scrive che si tratta di guasto/manutenzione... Ma non sono cose diverse? Ma perché ci prende il sospetto che sia l'ennesimo sciopero underground mascherato da difetti alle vetture che pure ci sono? Perché ci trattano male?
Senza rancore ma anche senza vergogna, Atac, qui sotto una clip audio che pare un montaggio nei gironi dell'inferno e invece è solo il tasto rosso del cellulare che ho premuto "senza speranza e senza disperazione", i compagni di sventura hanno fatto il resto, anzi tutto.
Buon ascolto.
Fatti, idee e iniziative sull'ascolto. A cominciare da un racconto sonoro su lavoro e precariato che porta lo stesso nome di questo sito. Anzi, visto che è nato prima, chiede più spazio per farsi ascoltare...
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sabato 21 ottobre 2017
mercoledì 19 luglio 2017
A casa di Anna, il bombardamento di San Lorenzo in audio doc
Il 6 marzo scorso è andata in onda per il programma "Tre Soldi" di Radio Tre Rai la prima puntata di Memorie di carta, l'audio documentario sui pezzi e i fatti di carta che non riusciamo, ancora e per fortuna, a dimenticare e che anzi vogliamo riportare alla luce leggendoli e condividendoli a voce alta. Anche davanti a un microfono.
E' quello che è successo la scorsa estate a casa di Anna, la signora di San Lorenzo che un giorno ritrova la lettera scritta dal fratello Ugo all'indomani del bombardamento del quartiere il 19 luglio 1943 e a cui ho chiesto di raccontarmi, per la centesima volta e forse anche di più, le tante storie legate a quel ritrovamento e a quel fatto. E Anna racconta volentieri, si commuove, corre spedita sul filo di episodi fondamentali che sembra ieri siano accaduti a lei e a molti altri. Poi incontro gli altri, gli abitanti del quartiere che le fanno coro e dicono, ognuno, come hanno vissuto quei momenti e quei giorni, cosa è successo dopo, chi si è salvato e chi non ce l'ha fatta. Non parlano volentieri ma con sincerità e lucidità estrema.
Poi il documentario prende forma e aggiunge puntate con altre persone e su altri oggetti cari sempre su carta: foto, ricette di cucina, diari e pagelle di scuola.
La prima puntata è quella a cui sono più sono affezionata, è quella su cui ho lavorato maggiormente e quella in cui mia nonna Anna ci fa una lezione di storia a partire da casa sua.
Buon ascolto a casa di Anna
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A casa di Anna, la lettera ritrovata (foto A. Rapone) |
E' quello che è successo la scorsa estate a casa di Anna, la signora di San Lorenzo che un giorno ritrova la lettera scritta dal fratello Ugo all'indomani del bombardamento del quartiere il 19 luglio 1943 e a cui ho chiesto di raccontarmi, per la centesima volta e forse anche di più, le tante storie legate a quel ritrovamento e a quel fatto. E Anna racconta volentieri, si commuove, corre spedita sul filo di episodi fondamentali che sembra ieri siano accaduti a lei e a molti altri. Poi incontro gli altri, gli abitanti del quartiere che le fanno coro e dicono, ognuno, come hanno vissuto quei momenti e quei giorni, cosa è successo dopo, chi si è salvato e chi non ce l'ha fatta. Non parlano volentieri ma con sincerità e lucidità estrema.
Poi il documentario prende forma e aggiunge puntate con altre persone e su altri oggetti cari sempre su carta: foto, ricette di cucina, diari e pagelle di scuola.
La prima puntata è quella a cui sono più sono affezionata, è quella su cui ho lavorato maggiormente e quella in cui mia nonna Anna ci fa una lezione di storia a partire da casa sua.
Buon ascolto a casa di Anna
domenica 18 settembre 2016
Al MACRO di via Nizza a Roma perdi e guadagni tempo
Se a Roma il tempo è incerto vale la pena rischiare e camminare guardando all'insù oppure scegliere da subito un posto al chiuso ma che permetta, in qualche modo e in modo originale, di farci uscire se possibile e se ci va.
Uno di questi posti è il MACRO a via Nizza, il Museo d'Arte Contemporanea che di domenica soprattutto rende la mia città più europea, più semplice da girare, direi perfino organizzata e profumata. Non è un elogio al museo in sé ma al tempo lento che richiede visitare un luogo e una mostra e immaginare... altri giorni.
Fino al 27 novembre, a proposito di giorni, è in mostra Roma Pop City 60-67: dipinti, sculture, fotografie, installazioni e video degli artisti della cosiddetta "Scuola di piazza del Popolo". Ne conoscevo alcuni, come Mimmo Rotella, Mario Schifano, ignoravo Mario Ceroli e Tano Festa, per dirne alcuni. "Ignorantella in libertà", pronta però a scoprire e a tentare di fermare emozioni e pensieri.
Mi sarei portata a casa Armadio con cielo, di Tano Festa, per dirne una.
Così grata a chi ha conosciuto la città degli anni Sessanta e l'ha trasformata in arte, arte popolare, "pop" appunto, fotografando e rielaborando cartelli stradali, biglietti dell'autobus, cemento armato e ferraglia.
E poi sono entrata nella "stanza del tempo" e lì mi sono persa.
Mostra nella mostra, più di una stanza, in realtà, al primo piano del museo, è dedicata al tempo indagato da molti artisti.
Due opere mi hanno colpito più di tutte, forse perché tutte e due hanno a che fare con la carta e hanno risvegliato la nativa analogica che vive digitale, che sono io.
La prima opera è Sono stata io. Diario 1900-1999, di Daniela Comani, che racconta il XX secolo riportando una serie di date e fatti battuti a macchina e in prima persona, da cui il titolo dell'opera. Emozionante.
Il gioco che si può fare qui è doppio, trovare la data del proprio compleanno e scoprire "dov'eri" nella storia quel giorno e cosa hai fatto. Oppure, leggere ad alta voce, un visitatore dopo l'altro tutto il muro che ospita l'opera: ne esce una storia collettiva in cui ognuno ha fatto la propria parte, buona o cattiva senza giudizio.
Non ho potuto evitare di fare un selfie, forse uno dei pochi che ho, in mezzo alle parole e ai numeri e alla storia.
L'altra opera è di Chiara Camoni, Dieci Giorni. Si tratta di una performance in cui l'artista invita i visitatori ad accettare un suo personalissimo dono, quello dei 10 giorni cancellati dalla Riforma del calendario gregoriano, trovati e da restituire. Un gesto simbolico, certo, che lega artista "in remoto" e visitatore in sala, spezza ancora una volta il tempo e proprio col tempo fa il regalo che tutti abbiamo accettato con gioia, dieci giorni usciti dal conto della storia, quasi un'altra rivoluzione copernicana. "Ho in mano un pezzo di tempo", dice l'artista nelle scritte a parete, e io sono uscita dal museo con il foglio che certifica il dono più caro.
Ah, al MACRO c'è anche Kentridge, Triumphs and Laments, ossia i bozzetti che ammiriamo lungo il Tevere, tra Ponte Sisto e Ponte Mazzini. Ma questa è un'altra storia.
Uno di questi posti è il MACRO a via Nizza, il Museo d'Arte Contemporanea che di domenica soprattutto rende la mia città più europea, più semplice da girare, direi perfino organizzata e profumata. Non è un elogio al museo in sé ma al tempo lento che richiede visitare un luogo e una mostra e immaginare... altri giorni.
Fino al 27 novembre, a proposito di giorni, è in mostra Roma Pop City 60-67: dipinti, sculture, fotografie, installazioni e video degli artisti della cosiddetta "Scuola di piazza del Popolo". Ne conoscevo alcuni, come Mimmo Rotella, Mario Schifano, ignoravo Mario Ceroli e Tano Festa, per dirne alcuni. "Ignorantella in libertà", pronta però a scoprire e a tentare di fermare emozioni e pensieri.
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Tano Festa, Armadio con cielo, 1964 |
Così grata a chi ha conosciuto la città degli anni Sessanta e l'ha trasformata in arte, arte popolare, "pop" appunto, fotografando e rielaborando cartelli stradali, biglietti dell'autobus, cemento armato e ferraglia.
E poi sono entrata nella "stanza del tempo" e lì mi sono persa.
Mostra nella mostra, più di una stanza, in realtà, al primo piano del museo, è dedicata al tempo indagato da molti artisti.
Due opere mi hanno colpito più di tutte, forse perché tutte e due hanno a che fare con la carta e hanno risvegliato la nativa analogica che vive digitale, che sono io.
La prima opera è Sono stata io. Diario 1900-1999, di Daniela Comani, che racconta il XX secolo riportando una serie di date e fatti battuti a macchina e in prima persona, da cui il titolo dell'opera. Emozionante.
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Daniela Comani, Sono stata io. Diario 1900-1999 |
Il gioco che si può fare qui è doppio, trovare la data del proprio compleanno e scoprire "dov'eri" nella storia quel giorno e cosa hai fatto. Oppure, leggere ad alta voce, un visitatore dopo l'altro tutto il muro che ospita l'opera: ne esce una storia collettiva in cui ognuno ha fatto la propria parte, buona o cattiva senza giudizio.
Non ho potuto evitare di fare un selfie, forse uno dei pochi che ho, in mezzo alle parole e ai numeri e alla storia.
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Chiara Camoni, Dieci Giorni, 2003-2016 |
Ah, al MACRO c'è anche Kentridge, Triumphs and Laments, ossia i bozzetti che ammiriamo lungo il Tevere, tra Ponte Sisto e Ponte Mazzini. Ma questa è un'altra storia.
domenica 28 agosto 2016
Ogni caso
Ogni caso
Poteva accadere.
Doveva accadere.
E' accaduto prima. Dopo.
Più vicino. Più lontano.
E' accaduto non a te.
Ti sei salvato perché eri il primo.
Ti sei salvato perché eri l'ultimo.
Perché da solo. Perché la gente.
Perché a sinistra. Perché a destra.
Perché la pioggia. Perché un'ombra.
Perché splendeva il sole.
Per fortuna là c'era un bosco.
Per fortuna non c'erano alberi.
Per fortuna una rotaia, un gancio, una trave, un freno, un telaio, una curva, un millimetro, un secondo.
Per fortuna sull'acqua galleggiava un rasoio.
In seguito a, poiché, eppure, malgrado.
Che sarebbe accaduto se una mano, una gamba, a un passo, a un pelo da una coincidenza.
Dunque ci sei? Dritto dall'attimo ancora socchiuso?
La rete aveva solo un buco, e tu proprio da lì?
Non c'è fine al mio stupore, al mio tacerlo.
Ascolta
come mi batte forte il tuo cuore.
Poteva accadere.
Doveva accadere.
E' accaduto prima. Dopo.
Più vicino. Più lontano.
E' accaduto non a te.
Ti sei salvato perché eri il primo.
Ti sei salvato perché eri l'ultimo.
Perché da solo. Perché la gente.
Perché a sinistra. Perché a destra.
Perché la pioggia. Perché un'ombra.
Perché splendeva il sole.
Per fortuna là c'era un bosco.
Per fortuna non c'erano alberi.
Per fortuna una rotaia, un gancio, una trave, un freno, un telaio, una curva, un millimetro, un secondo.
Per fortuna sull'acqua galleggiava un rasoio.
In seguito a, poiché, eppure, malgrado.
Che sarebbe accaduto se una mano, una gamba, a un passo, a un pelo da una coincidenza.
Dunque ci sei? Dritto dall'attimo ancora socchiuso?
La rete aveva solo un buco, e tu proprio da lì?
Non c'è fine al mio stupore, al mio tacerlo.
Ascolta
come mi batte forte il tuo cuore.
Wislawa Szymborska, Elogio dei sogni
venerdì 8 luglio 2016
Dei delitti e delle pene, ricordi di scuola
Un giorno l'insegnante di lettere ci chiese: sei a favore o contro la pena di morte? Penso fosse uno dei maldestri tentativi della scuola per inserirsi nei temi sociali e uscire fuori dai libri e dalla letteratura. La mia, in particolare, ci faceva stare al riparo dalle questioni di vita e morte quotidiane che ci arrivavano attraverso i secoli dalla voce di scrittori e poeti. C'era poco spazio per l'attualità e per dire la nostra. Non era un male in toto ma neanche un bene.
La domanda quindi fu ancora più spiazzante. Penso che forse derivasse dalle pagine di Manzoni... sì, deve essere stato lui e suo nonno materno Cesare Beccaria con Dei delitti e delle pene a far venire in mente alla prof l'assurda domanda.
Assurda perché già preferivo immergermi in un'epoca e in una storia anziché costruire ponti improvvisati fra avi e posteri, assurda perché ero sicura che tutte noi, classe al femminile, avremmo esclamato senza dubbio: contro, prof, siamo contro la pena di morte, ma che domanda è la tua?
E invece fu un coro di dubbi e di risposte incerte, un tappeto sonoro di "chi sbaglia paga", "se tu mi uccidi perché io no?" E io pensavo che quantomeno "no, non puoi uccidere a tua volta perché già sei morto, accidenti. Un po' di logica". Però restai zitta, e quindi sbagliai alla grande, i dubbi vennero pure a me che volevo essere fuori dal coro e invece cantavo come tutte le altre.
Solo la compagna di classe etiope articolò un pensiero che usciva dal modello referendum e aggiungeva considerazioni personali... erano dure, ricordo, sofferte, a favore della vita. Portò a compimento il suo pensiero la stessa prof: "Io sono contro la pena di morte perché sono cristiana".
Mi spiazzò. Nella scuola cattolica quella mica era la dichiarazione per salvarsi il posto di lavoro e da parte nostra ottenere un buon voto, non si giocava così, lo sapevamo da tempo, e meno male. Quella era la verità che dicevamo di avere in tasca e che fino a pochi minuti prima proprio in tasca l'avevamo ricacciata. Subito a cercare parabole evangeliche per farci credere ancora alla salvezza dell'uomo già sulla terra, subito a guardare Barseba che toccava nervosa il ciondolo con la piccola croce che portava al collo e che in Arabia Saudita doveva nascondere ai controlli in aeroporto, subito a pensare... "ma era così semplice, perché la risposta non mi è venuta spontanea? Perché mi sono vergognata, perfino?"
Eh, perché semplice in fin dei conti non è, perché il rischio di rimanere al primo stadio dell'evoluzione come esseri umani lo corriamo a ogni età e ben vengano tutti i libri che ci dicono di aprire e leggere per crescere assieme alla comunità di uomini e donne come noi e anche diversi da noi. Ben venga una prof non proprio amata che in quell'occasione non mi diede fastidio come al solito ma mi permise di sentire fastidio per me stessa e per la classe in cui stavo: saremmo state in grado di crescere davvero, piccole donne senza coraggio?
Certo, ancora una volta, aveva ridotto a zero ogni pensiero illuminista sulla pena di morte e aveva scavalcato Beccaria abbracciando la pietà del nipote Manzoni, aveva pure osato proclamare la sua e la nostra religione, così, senza pudore e a voce alta.
Poi siamo cresciute e coi fatti di cronaca che qualcuna di noi vive in prima persona siamo sempre più alle prese con le scelte per restare umani davvero, con la bontà da riconoscere e usare ogni giorno e mai una volta per tutte. Incredibile quanto sia facile dimenticare.
L'università che ho frequentato aveva una targa all'ingresso che ho subito considerato un benvenuto fra persone adulte e responsabili del bene comune. La targa diceva più o meno così: questa università rifiuta e condanna ogni forma di fascismo e razzismo. Ero a casa. E anche dentro casa, ci fossero stati episodi di fascismo e razzismo io li avrei rifiutati e condannati, chiamati col loro nome, per la Costituzione che studiavo, per il Vangelo che cercavo di vivere, per quell'antipatica della prof di lettere che a scuola mi metteva sempre in difficoltà (e poi io avrei scelto di leggere e scrivere tutta la vita).
Ecco, per ogni fatto di razzismo e fascismo che uccide l'uomo e il suo spirito vale la pena togliersi le cuffie e riconoscere il delitto e assegnare la punizione, errore blu, pure sottolineato. E continuare ad amare, nonostante tutto.
La domanda quindi fu ancora più spiazzante. Penso che forse derivasse dalle pagine di Manzoni... sì, deve essere stato lui e suo nonno materno Cesare Beccaria con Dei delitti e delle pene a far venire in mente alla prof l'assurda domanda.
Assurda perché già preferivo immergermi in un'epoca e in una storia anziché costruire ponti improvvisati fra avi e posteri, assurda perché ero sicura che tutte noi, classe al femminile, avremmo esclamato senza dubbio: contro, prof, siamo contro la pena di morte, ma che domanda è la tua?
E invece fu un coro di dubbi e di risposte incerte, un tappeto sonoro di "chi sbaglia paga", "se tu mi uccidi perché io no?" E io pensavo che quantomeno "no, non puoi uccidere a tua volta perché già sei morto, accidenti. Un po' di logica". Però restai zitta, e quindi sbagliai alla grande, i dubbi vennero pure a me che volevo essere fuori dal coro e invece cantavo come tutte le altre.
Solo la compagna di classe etiope articolò un pensiero che usciva dal modello referendum e aggiungeva considerazioni personali... erano dure, ricordo, sofferte, a favore della vita. Portò a compimento il suo pensiero la stessa prof: "Io sono contro la pena di morte perché sono cristiana".
Mi spiazzò. Nella scuola cattolica quella mica era la dichiarazione per salvarsi il posto di lavoro e da parte nostra ottenere un buon voto, non si giocava così, lo sapevamo da tempo, e meno male. Quella era la verità che dicevamo di avere in tasca e che fino a pochi minuti prima proprio in tasca l'avevamo ricacciata. Subito a cercare parabole evangeliche per farci credere ancora alla salvezza dell'uomo già sulla terra, subito a guardare Barseba che toccava nervosa il ciondolo con la piccola croce che portava al collo e che in Arabia Saudita doveva nascondere ai controlli in aeroporto, subito a pensare... "ma era così semplice, perché la risposta non mi è venuta spontanea? Perché mi sono vergognata, perfino?"
Eh, perché semplice in fin dei conti non è, perché il rischio di rimanere al primo stadio dell'evoluzione come esseri umani lo corriamo a ogni età e ben vengano tutti i libri che ci dicono di aprire e leggere per crescere assieme alla comunità di uomini e donne come noi e anche diversi da noi. Ben venga una prof non proprio amata che in quell'occasione non mi diede fastidio come al solito ma mi permise di sentire fastidio per me stessa e per la classe in cui stavo: saremmo state in grado di crescere davvero, piccole donne senza coraggio?
Certo, ancora una volta, aveva ridotto a zero ogni pensiero illuminista sulla pena di morte e aveva scavalcato Beccaria abbracciando la pietà del nipote Manzoni, aveva pure osato proclamare la sua e la nostra religione, così, senza pudore e a voce alta.
Poi siamo cresciute e coi fatti di cronaca che qualcuna di noi vive in prima persona siamo sempre più alle prese con le scelte per restare umani davvero, con la bontà da riconoscere e usare ogni giorno e mai una volta per tutte. Incredibile quanto sia facile dimenticare.
L'università che ho frequentato aveva una targa all'ingresso che ho subito considerato un benvenuto fra persone adulte e responsabili del bene comune. La targa diceva più o meno così: questa università rifiuta e condanna ogni forma di fascismo e razzismo. Ero a casa. E anche dentro casa, ci fossero stati episodi di fascismo e razzismo io li avrei rifiutati e condannati, chiamati col loro nome, per la Costituzione che studiavo, per il Vangelo che cercavo di vivere, per quell'antipatica della prof di lettere che a scuola mi metteva sempre in difficoltà (e poi io avrei scelto di leggere e scrivere tutta la vita).
Ecco, per ogni fatto di razzismo e fascismo che uccide l'uomo e il suo spirito vale la pena togliersi le cuffie e riconoscere il delitto e assegnare la punizione, errore blu, pure sottolineato. E continuare ad amare, nonostante tutto.
martedì 28 giugno 2016
"Bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto"
"Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l’obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l’unico responsabile di tutto".
Càpito per caso sulla pagina Facebook dedicata a don Lorenzo Milani e mi attira la frase che ho copiato e incollato in apertura del post. In particolare mi piace il richiamo a sentirsi "l'unico responsabile di tutto".
(Lettera ai giudici - don Milani)
Càpito per caso sulla pagina Facebook dedicata a don Lorenzo Milani e mi attira la frase che ho copiato e incollato in apertura del post. In particolare mi piace il richiamo a sentirsi "l'unico responsabile di tutto".
In famiglia, a casa, chi butta la spazzatura, chi manda l'email, chi sbaglia e chi paga, cioè tutti, chi riceve il premio e chi lavora a prescindere, chi si rifiuta di eseguire e ci mette anima e corpo.
Questo secondo me è fare la rivoluzione: scardinare i luoghi comuni, il lamento facile e mai tirarsi indietro anche se non direttamente coinvolti in una situazione, bella o brutta. Porterà un sacco di problemi, e il sacco resta.
Mi sembra un buon modo di tornare a scrivere e ascoltare "parole in cuffia".
domenica 22 maggio 2016
Corpo a corpo, 7 minuti per dirci chi siamo
E poi accade che ricevi una email a cui tenevi ma che ti eri scordata nella lista dei desideri. La mail ti informa che sei tra i selezionati al premio L'anello debole all'interno del Capodarco l'Altro festival.
Non sei tu tra i selezionati, a dire il vero, ma un lavoro a cui tieni, piccolo anzi breve ma prezioso per diverse ragioni. Si chiama Corpo a corpo, gli hai dato questo nome perché i due protagonisti li hai conosciuti così, per una stretta di mano e qualche parola di troppo, perché loro non hanno paura di confrontarsi con ogni cellula di sé ogni volta che si incontrano e ti incontrano, perché noi tutti conosciamo col corpo e il suono passa di lì. Si tratta di 7 minuti di un lavoro audio che ora aspetta il giudizio della "giuria di qualità", brivido. E poi di quella popolare, altro brivido.
Questa la scheda dell'opera, poche righe anche qui, e i 7 minuti di Corpo a corpo.
Promosso dalla Comunità di Capodarco di Fermo, il premio "L'anello debole" è importante perché tratta di "temi sociali", viene assegnato alle migliori produzioni video e audio di tipo giornalistico e di fiction che affrontano temi sociali, primissimo e ultimo brivido.
Quello che a me qui preme dire - al di là dell'emozione dell'email informativa e del senso di responsabilità che mi ha preso dopo, più che durante la registrazione del pomeriggio insieme a Francesco e Simone, i protagonisti del mio lavoro - è quanto sia bello, inaspettato e sfacciatamente intrigante poter chiacchierare con ogni persona uguale e diversa da te. Mica è detto mica è facile.
E' sempre una scommessa con se stessi, l'altro e il mondo tutto quando uno della partita decide di fidarsi e si lascia andare, tu accendi il registratore, te lo scordi e a volte non vuoi fare neanche più i conti con l'ambiente e i guai che ti porterà stare in un salone che riverbera: quello che conta sono le facce, la voce, la conversazione che va liscia e quei tanti minuti, che alla fine saranno 7, per dirci chi siamo.
Ecco, mi piacerebbe che ognuno di noi trovasse spesso 7 minuti per incontrare qualcuno e scoprire se stesso. Anche senza registratore, anche senza premio.
Non sei tu tra i selezionati, a dire il vero, ma un lavoro a cui tieni, piccolo anzi breve ma prezioso per diverse ragioni. Si chiama Corpo a corpo, gli hai dato questo nome perché i due protagonisti li hai conosciuti così, per una stretta di mano e qualche parola di troppo, perché loro non hanno paura di confrontarsi con ogni cellula di sé ogni volta che si incontrano e ti incontrano, perché noi tutti conosciamo col corpo e il suono passa di lì. Si tratta di 7 minuti di un lavoro audio che ora aspetta il giudizio della "giuria di qualità", brivido. E poi di quella popolare, altro brivido.
Questa la scheda dell'opera, poche righe anche qui, e i 7 minuti di Corpo a corpo.
Promosso dalla Comunità di Capodarco di Fermo, il premio "L'anello debole" è importante perché tratta di "temi sociali", viene assegnato alle migliori produzioni video e audio di tipo giornalistico e di fiction che affrontano temi sociali, primissimo e ultimo brivido.
Quello che a me qui preme dire - al di là dell'emozione dell'email informativa e del senso di responsabilità che mi ha preso dopo, più che durante la registrazione del pomeriggio insieme a Francesco e Simone, i protagonisti del mio lavoro - è quanto sia bello, inaspettato e sfacciatamente intrigante poter chiacchierare con ogni persona uguale e diversa da te. Mica è detto mica è facile.
E' sempre una scommessa con se stessi, l'altro e il mondo tutto quando uno della partita decide di fidarsi e si lascia andare, tu accendi il registratore, te lo scordi e a volte non vuoi fare neanche più i conti con l'ambiente e i guai che ti porterà stare in un salone che riverbera: quello che conta sono le facce, la voce, la conversazione che va liscia e quei tanti minuti, che alla fine saranno 7, per dirci chi siamo.
Ecco, mi piacerebbe che ognuno di noi trovasse spesso 7 minuti per incontrare qualcuno e scoprire se stesso. Anche senza registratore, anche senza premio.
lunedì 28 marzo 2016
I mal di pancia che sconquassano il mondo
Nel giorno di Pasquetta, complice la calma tutt'intorno e il tempo incerto che invita a riflettere su dove andare piuttosto che andare e basta, faccio il gatto sul divano e sbircio Facebook pigramente.
Rintraccio un post che rinvia alle parole di Paola Mastrocola sul Sole 24 Ore:
Due bacchette magiche
Rintraccio un post che rinvia alle parole di Paola Mastrocola sul Sole 24 Ore:
Due bacchette magiche
"Difficile incontrare qualcuno che si stacchi dal pensiero comune e pensi per conto suo, prendendosi l’onere (ma anche la felicità) di avere pensieri solo suoi. Il prezzo è troppo alto: essere esclusi, trascurati, sentirsi soli. Nessuno vuol sentirsi solo, oggi che la parola chiave è gruppo, condivisione.
Un’amica psicologa mi ha parlato degli esperimenti sul conformismo di Solomon Asch, che non conoscevo. Quel che ho capito è questo: si mostrano a un gruppo di dieci persone due bacchette, una per esempio di quindici centimetri e una di diciotto, e si chiede qual è la più lunga. Di questo gruppo di persone, solo una è quella che deve essere esaminata, le altre nove sono d’accordo a mentire e dicono che le due bacchette sono lunghe uguali. Ebbene, la decima persona dirà lo stesso.
Chissà quali sconvolgimenti mentali abiteranno nella sua mente in quel momento: è evidente che una bacchetta è più lunga dell’altra, ne è sicuro, dovrebbe dirlo. Eppure, siccome tutti dicono il contrario, anche quella persona non avrà nessuna esitazione a dire il contrario. Come gli altri. Per uniformarsi agli altri (portare l’uniforme!).
La realtà, i dati oggettivi vanno a pallino. Figuriamoci il nostro personale punto di vista, il nostro particolare e originale pensiero!
Teniamo così tanto a essere inclusi, a sentirci parte del gruppo, che rinneghiamo l’evidenza, anche un’evidenza così eclatante. Figuriamoci se non rinneghiamo noi stessi!
Siamo ai soliti vestiti dell’Imperatore. Se i sudditi dicono che il re non è nudo, non lo è, e non ha più importanza che lo sia.
Ma almeno lì c’era l’Imperatore, era una questione di potere, di favori. Forse anche di paura. Qui invece c’è solo il gruppo, l’ammasso indistinguibile di persone come noi: è soltanto di loro che c’importa, oggi, è al loro parere e alla loro approvazione che teniamo".
Un’amica psicologa mi ha parlato degli esperimenti sul conformismo di Solomon Asch, che non conoscevo. Quel che ho capito è questo: si mostrano a un gruppo di dieci persone due bacchette, una per esempio di quindici centimetri e una di diciotto, e si chiede qual è la più lunga. Di questo gruppo di persone, solo una è quella che deve essere esaminata, le altre nove sono d’accordo a mentire e dicono che le due bacchette sono lunghe uguali. Ebbene, la decima persona dirà lo stesso.
Chissà quali sconvolgimenti mentali abiteranno nella sua mente in quel momento: è evidente che una bacchetta è più lunga dell’altra, ne è sicuro, dovrebbe dirlo. Eppure, siccome tutti dicono il contrario, anche quella persona non avrà nessuna esitazione a dire il contrario. Come gli altri. Per uniformarsi agli altri (portare l’uniforme!).
La realtà, i dati oggettivi vanno a pallino. Figuriamoci il nostro personale punto di vista, il nostro particolare e originale pensiero!
Teniamo così tanto a essere inclusi, a sentirci parte del gruppo, che rinneghiamo l’evidenza, anche un’evidenza così eclatante. Figuriamoci se non rinneghiamo noi stessi!
Siamo ai soliti vestiti dell’Imperatore. Se i sudditi dicono che il re non è nudo, non lo è, e non ha più importanza che lo sia.
Ma almeno lì c’era l’Imperatore, era una questione di potere, di favori. Forse anche di paura. Qui invece c’è solo il gruppo, l’ammasso indistinguibile di persone come noi: è soltanto di loro che c’importa, oggi, è al loro parere e alla loro approvazione che teniamo".
Allora mi vengono in mente le parole che più di tutte sento ripetere in azienda e in molti gruppi di lavoro a cui partecipo: inclusione, integrazione, collaborazione. ... Con le finali uguali, dove l'assonanza vince, come siamo messi con le iniziali? Cioè, qual è l'intento che non possiamo tradire, a rischio di innamorarci delle parole senza pesare il rischio che portano con sé?
E il rischio più grande è il livellamento del pensiero, la paura di non essere accettati, il silenzio quanto tutti tacciono o il chiasso quando tutti manifestano: non è il ritratto solo di adolescenti in cerca della propria identità, è quello di adulti nell'assemblea condominiale come sul posto di lavoro, all'interno di comunità che per essere veramente tali devono poter permettere a tutti di formare ed esprimere liberamente se stessi in relazione con gli altri. Coraggio! Si collabora a un progetto pensando con la propria testa e mettendo a disposizione le proprie esperienze, cambiando e impastando insieme i punti di vista. Si decide se tenere o meno il portierato ascoltando i pro e i contro quotidiani di tutti i condomini - fatevi una scaletta per arrivare al punto e non fare notte.
Guai al pensiero unico, più veloce e sbrigativo, ma che porta ai mal di pancia che sconquassano il mondo.
venerdì 15 gennaio 2016
Soli, ma all'opera per sé e per gli altri
E quindi..? Come avete passato le vacanze di Natale? Come avete cominciato l'anno? ... E Capodanno, ritiro nell'eremo o festa da ballo?
Le domande di rito, anche se per fortuna abbiamo superato già il rientro e i suoi traumi, fra cui proprio le domande di rito, sono il pretesto per riflettere sull'ansia diffusa a non essere soli.
Non é tanto o non solo la questione della scelta di dove e come passare l'ultimo dell'anno - perché una pazza notte a riflettere sul mondo fa originale e porta rispetto, anche - ma di come impostare tutti i giorni del calendario che non siano dannatamente giorni da soli.
Non é neanche di scelta sentimentale che parliamo, perché quella puó non essere una scelta, ed é meglio mettersi le cuffie e non dire parole.
É invece l'ansia del tempo senza impegni e senza ansie, appunto - sí, esiste ancora se ci fai caso, ce l'hai pure te - l'unico che ti permette di sprofondare nel tuo lavoro, nella tua passione, perfino di scoprirla se la senti ma ancora non la riconosci, nei gesti ripetuti di esercizi alla chitarra, coi pennelli, davanti allo specchio a recitare copioni, a copiare il fabbro maestro che svita e riavvita serrature e serrande.
"La padronanza esige solitudine", ricorda Noel Cobb in "Maestri per l'anima", di cui il sito www.jungitalia.it riporta alcuni estratti e citazioni di autori come il poeta raccoglie Rilke, che alla moglie scriveva:
Credo che sia questo il compito maggiore di un legame fra due persone: che ciascuno sia a guardia della solitudine dell'altro.
E certo, perché la solitudine non vuol dire non avere famiglia, non essere coppia, non crescere figli ma tenere continuamente, faticosamente, meravigliosamente la necessitá profonda di scrivere anche solo una riga al giorno, la nota sullo spartito di una vita, la concentrazione a coltivare in fin dei conti se stessi.
In giornate in cui ho visto l'idraulico parlare con un sifone difettoso, un musicista riascoltare un brano giá composto mille sere... e oggi leggo che "se vogliamo davvero padroneggiare un po' la materia, dobbiamo passare delle ore, dei giorni, dei mesi, soli con essa" mi rallegro e convinco del fatto che la solitudine intesa come dilatazione di tempo e spazio é necessaria per conoscersi, fare sempre meglio, stare e tornare nella coppia e nella comunitá più liberi, sicuri, felici.
Esagero?
Le domande di rito, anche se per fortuna abbiamo superato già il rientro e i suoi traumi, fra cui proprio le domande di rito, sono il pretesto per riflettere sull'ansia diffusa a non essere soli.
Non é tanto o non solo la questione della scelta di dove e come passare l'ultimo dell'anno - perché una pazza notte a riflettere sul mondo fa originale e porta rispetto, anche - ma di come impostare tutti i giorni del calendario che non siano dannatamente giorni da soli.
Non é neanche di scelta sentimentale che parliamo, perché quella puó non essere una scelta, ed é meglio mettersi le cuffie e non dire parole.
É invece l'ansia del tempo senza impegni e senza ansie, appunto - sí, esiste ancora se ci fai caso, ce l'hai pure te - l'unico che ti permette di sprofondare nel tuo lavoro, nella tua passione, perfino di scoprirla se la senti ma ancora non la riconosci, nei gesti ripetuti di esercizi alla chitarra, coi pennelli, davanti allo specchio a recitare copioni, a copiare il fabbro maestro che svita e riavvita serrature e serrande.
"La padronanza esige solitudine", ricorda Noel Cobb in "Maestri per l'anima", di cui il sito www.jungitalia.it riporta alcuni estratti e citazioni di autori come il poeta raccoglie Rilke, che alla moglie scriveva:
Credo che sia questo il compito maggiore di un legame fra due persone: che ciascuno sia a guardia della solitudine dell'altro.
E certo, perché la solitudine non vuol dire non avere famiglia, non essere coppia, non crescere figli ma tenere continuamente, faticosamente, meravigliosamente la necessitá profonda di scrivere anche solo una riga al giorno, la nota sullo spartito di una vita, la concentrazione a coltivare in fin dei conti se stessi.
In giornate in cui ho visto l'idraulico parlare con un sifone difettoso, un musicista riascoltare un brano giá composto mille sere... e oggi leggo che "se vogliamo davvero padroneggiare un po' la materia, dobbiamo passare delle ore, dei giorni, dei mesi, soli con essa" mi rallegro e convinco del fatto che la solitudine intesa come dilatazione di tempo e spazio é necessaria per conoscersi, fare sempre meglio, stare e tornare nella coppia e nella comunitá più liberi, sicuri, felici.
Esagero?
martedì 22 dicembre 2015
Quando "the end" diventa "to be continued"... Cosa cambia nelle storie che raccontiamo
Tutti sanno che se lasci un blog senza post per più di una settimana cominciano i problemi. Figurarsi se lo lasci per più di un mese: puoi dire addio alla fedeltà, che si pretende più online che nella vita privata, e addio anche alla credibilità. In sintesi, sei fuori dal giro, hai perso lettori, il tuo brand non è più un brand ma un nome nella rete. Non sei nessuno. Corretto ed esagerato, ma un blog personale si salva proprio perché lo gestisce una persona coi suoi tempi e piani editoriali che spesso e volentieri saltano e si sta allegri comunque, dopotutto.
In queste settimane di altro - leggi lavoro, famiglia, casa, progetti, insomma, tanto ordinario e tanto straordinario - il fatto nuovo e che fino a pochi minuti fa mi pesava era il cambio casa dei miei vicini di pianerottolo. Manco si fossero dati appuntamento, per un motivo o per un altro le facce della mattina e della sera sono di colpo cambiate e cambieranno ancora. Mi sarebbe importato molto comunque, ma per me che nel condominio ho costruito relazioni grazie un audio documentario, Condominium appunto, cambia moltissimo: come si fa ora senza Francesca, Carlo, Rosamaria..?
E gli amici di Transom.org sono venuti in aiuto anche in questa occasione. Il titolo della notizia principale è invitante: What’s Changed?: The Power Of Follow-Up Stories. E il potere sta prima di ogni altra cosa nel guardare indietro e rispondere semplicemente alla domanda "cosa è cambiato? Che c'è di nuovo?"
Ecco, è un modo per continuare a seguire una storia, non lasciarla al passato ma renderla viva. Insomma, usare il tempo a nostro vantaggio. Quindi... bando alle ciance, e usiamo anche il cambiamento pure se non ci riguarda direttamente: i vicini di casa che lasciano possiamo seguirli, quelli nuovi potranno essere intervistati, il mio palazzone romano conta ancora tante famiglie italiane e straniere da ascoltare e scoprire insieme.
Pare una minaccia, è solo un modo per condividere una riflessione semplice e importante per ogni storyteller, anzi storybuilder: the end può diventare to be continued.
In queste settimane di altro - leggi lavoro, famiglia, casa, progetti, insomma, tanto ordinario e tanto straordinario - il fatto nuovo e che fino a pochi minuti fa mi pesava era il cambio casa dei miei vicini di pianerottolo. Manco si fossero dati appuntamento, per un motivo o per un altro le facce della mattina e della sera sono di colpo cambiate e cambieranno ancora. Mi sarebbe importato molto comunque, ma per me che nel condominio ho costruito relazioni grazie un audio documentario, Condominium appunto, cambia moltissimo: come si fa ora senza Francesca, Carlo, Rosamaria..?
E gli amici di Transom.org sono venuti in aiuto anche in questa occasione. Il titolo della notizia principale è invitante: What’s Changed?: The Power Of Follow-Up Stories. E il potere sta prima di ogni altra cosa nel guardare indietro e rispondere semplicemente alla domanda "cosa è cambiato? Che c'è di nuovo?"
Ecco, è un modo per continuare a seguire una storia, non lasciarla al passato ma renderla viva. Insomma, usare il tempo a nostro vantaggio. Quindi... bando alle ciance, e usiamo anche il cambiamento pure se non ci riguarda direttamente: i vicini di casa che lasciano possiamo seguirli, quelli nuovi potranno essere intervistati, il mio palazzone romano conta ancora tante famiglie italiane e straniere da ascoltare e scoprire insieme.
Pare una minaccia, è solo un modo per condividere una riflessione semplice e importante per ogni storyteller, anzi storybuilder: the end può diventare to be continued.
lunedì 2 novembre 2015
Il rumorista alla prese con la realtà
Se fossi un regista riprenderei il suono della fede al dito della donna mentre parla col ragazzo e si tocca i capelli. Che suono fanno i capelli, sono più o meno forti dell’anello che batte sul sostegno di metallo dentro il vagone della metropolitana? E’ l’inizio o la fine di una storia possibile? E’ una traccia di vita quotidiana che potrebbe essere registrata e poi riscritta. Potrebbe anche essere il lavoro d’artista di quello che in inglese si chiama foley artist, appunto, cioè il rumorista.
The foley artist è anche il titolo di un bellissimo cortometraggio diretto da Oliver Holms che racconta il lavoro di un progettista del suono per creare i suoni di un film, dal clic di una sveglia a quello dei passi sul pavimento di legno fino al colpo di scena finale. Mentre la ragazza protagonista del film inizia la sua giornata, il rumorista è già all’opera per accompagnarla coi suoni che segneranno i diversi momenti di vita.
Per molto tempo ho pensato che i suoni di un film venissero registrati tutti e solamente in presa diretta, dipende. Dipende da come si costruiscono i diversi piani sonori, dipende da come evitare o inserire tutto l’ambiente in cui è immerso un dialogo, per esempio. Dipende da quale piano si vuole privilegiare.
Come in un’orchestra che suona e il cui effetto totale è più forte se viene registrata con tutti gli strumenti insieme e non per tracce separate di realtà. Ma se uno strumento non va a tempo, è scordato o altro, il rischio è rifare o saltare la scena, la registrazione, la parte. La realtà è un'atra cosa, ma poi cosa? La realtà non esiste.
Insomma, chissà se la metropolitana che fischia ha coperto i suoni dei ragazzi e un rumorista fuori scena è dovuto intervenire per scoprire che suono fanno i capelli che si toccano e quanto pesa un anello al dito.
The foley artist è anche il titolo di un bellissimo cortometraggio diretto da Oliver Holms che racconta il lavoro di un progettista del suono per creare i suoni di un film, dal clic di una sveglia a quello dei passi sul pavimento di legno fino al colpo di scena finale. Mentre la ragazza protagonista del film inizia la sua giornata, il rumorista è già all’opera per accompagnarla coi suoni che segneranno i diversi momenti di vita.
Per molto tempo ho pensato che i suoni di un film venissero registrati tutti e solamente in presa diretta, dipende. Dipende da come si costruiscono i diversi piani sonori, dipende da come evitare o inserire tutto l’ambiente in cui è immerso un dialogo, per esempio. Dipende da quale piano si vuole privilegiare.
Come in un’orchestra che suona e il cui effetto totale è più forte se viene registrata con tutti gli strumenti insieme e non per tracce separate di realtà. Ma se uno strumento non va a tempo, è scordato o altro, il rischio è rifare o saltare la scena, la registrazione, la parte. La realtà è un'atra cosa, ma poi cosa? La realtà non esiste.
Insomma, chissà se la metropolitana che fischia ha coperto i suoni dei ragazzi e un rumorista fuori scena è dovuto intervenire per scoprire che suono fanno i capelli che si toccano e quanto pesa un anello al dito.
sabato 3 ottobre 2015
#tempodelledonne, tempo da vivere insieme
Mi perdo nel sito e leggendo i tweet dell'iniziativa Il tempo delle donne, che il Corriere della Sera dedica a tutte le donne, appunto, fino a domenica 4 ottobre a Milano alla Triennale. Il tema è la maternità, ma mica solo la pancia e l'attesa, i bambini e i genitori: dentro c'è tanto e ogni piega di essere donna, uomo, giovane o nonna, bambino che si racconta, insomma umano alle prese con le faccende fondamentali della vita insieme ad altri umani e non tutti dello stesso quartiere ma dell'intero mondo.
Poche altre volte ho sentito la voglia di partire subito, a prescindere, senza organizzazione. Invece avrei dovuto organizzarmi prima e sistemare in tempo lavoro, affetti, impicci e imprevisti.
E' anche questo il tempo delle donne, quello tutto minuscolo, che si rimpiange un po' per averlo lasciato andare prima di tenerlo in mano per bene e averci fatto qualcosa. Allora scrivo un post nel mio blog, dopo diverse settimane dall'ultimo in cui raccontavo di una donna vista al cinema, Anna nel film Per amor vostro di Giuseppe Gaudino.
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il colpo di vento fa saltare i piani. La foto è felice |
Comunque, a scanso di equivoci, il tempo delle donne è un punto della situazione e una raccolta continua di "storie, idee, azioni per partecipare al cambiamento", coinvolge i figli e anche chi non ce li ha, riguarda gli uomini e si apre a tutte le generazioni. M'invita a riconoscere quanto sia prezioso il contributo che diamo tutte e tutti al tempo che passiamo insieme e quanto dobbiamo fare di più ma senza ansie, solo per il gusto di stare e offrire, quindi ricevere, la nostra piccolissima bellissima parte.
Parole in cuffia, ascolto di noi nella mattina di sabato al mercato, in palestra, nel letto col gatto, insieme al marito, ad allattare, per strada senza meta con qualche sogno in testa. Dal parrucchiere per dargli forma. Buona giornata.
sabato 8 agosto 2015
Compiti per le vacanze 2
"Un'altra cosa che mi è appena tornata in mente. Una volta, in quel cinema, Jane ha fatto una cosa che per poco non mi lasciava secco. Stavano dando il cinegiornale o qualcosa del genere, e tutt'a un tratto mi sono sentito una mano sulla nuca, ed era la mano di Jane. Che cosa buffa, quella. Voglio dire, lei era giovanissima e via discorrendo, e se vedete una ragazza che mette la mano sulla nuca di qualcuno, sono sempre quasi tutte sui venticinque o i trent'anni, e di solito lo fanno ai loro mariti o ai loro bambini - io per esempio lo faccio alla mia sorellina Phoebe, ogni tanto. Ma se lo fa una ragazza giovanissima eccetera eccetera, è così carino che rischi di restarci secco".
Il giovane Holden non è il libro della mia giovinezza né quello che mi è piaciuto di più di J.D. Salinger, eppure io alla pagina 94 del libro nella collana "Gli Struzzi" ristampato nel 1999 feci una linguetta che mi ricorderà sempre su cosa mi bloccai. Cioè su quel gesto così naturale eppure sconvolgente per Holden giovane, così semplice eppure fuori età. Sarei mai stata in grado di rifarlo e di provarlo fuori pagina? Da adulta ci sono riuscita e lo sento ogni volta più vero, "così carino da restarci secca": la letteratura ha anticipato l'emozione quotidiana per chi mi sta a cuore.
Ed ecco altri compiti per le vacanze di questa calda estate. Dopo la scelta di registrare, possiamo riaprire un vecchio libro e riscoprire cosa ci era piaciuto di più, le righe che abbiamo cercato di tirare fuori e far vivere, quelle per cui abbiamo fatto linguette, usato penne o matite senza aver paura di sporcare o far male ma amando il testo a tal punto da volerlo portare fuori nella vita con noi.
Vale per i libri di carta - Il giovane Holden che ho ripreso in mano costava addirittura 25.000 lire, un atto di fiducia a partire dalla copertina bianca -, sugli ebook non posso dire nulla.
Il giovane Holden non è il libro della mia giovinezza né quello che mi è piaciuto di più di J.D. Salinger, eppure io alla pagina 94 del libro nella collana "Gli Struzzi" ristampato nel 1999 feci una linguetta che mi ricorderà sempre su cosa mi bloccai. Cioè su quel gesto così naturale eppure sconvolgente per Holden giovane, così semplice eppure fuori età. Sarei mai stata in grado di rifarlo e di provarlo fuori pagina? Da adulta ci sono riuscita e lo sento ogni volta più vero, "così carino da restarci secca": la letteratura ha anticipato l'emozione quotidiana per chi mi sta a cuore.
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libri, righe di testo, pagine aperte - da Adnkronos sugli ebook, 22 luglio 2015 |
Vale per i libri di carta - Il giovane Holden che ho ripreso in mano costava addirittura 25.000 lire, un atto di fiducia a partire dalla copertina bianca -, sugli ebook non posso dire nulla.
mercoledì 5 agosto 2015
Si fa presto a dire smart working
Buffo che in questa calda estate in molti dal fresco degli uffici con l'aria condizionata mi inviino link ad articoli, post e commenti sul tema smart working. Sono amici, amici di amici, conoscenti e contatti vari che chiedono una possibilità diversa, in fondo quella di stare con la sabbia o coi ghiaccioli ai piedi, vicino ai bambini che hanno finito anche il centro estivo, evitando di aspettare o salire sui mezzi pubblici che s'inceppano per arrivare al lavoro.
Lo smart working può anche iniziare con la gestione dei luoghi dentro l'azienda, riorganizzando gli spazi oltre la scrivania personale e l'open space di scrivanie personali, con buona pace di chi si porta pianta, biscotti e foto dei figli per tutti.
Per quanto riguarda la gestione del tempo, si può già ampliare la flessibilità oraria in entrata e uscita, dando e chiedendo più fiducia e senso di responsabilità.
Per convincere i più riottosi, lavoratori o aziende, qualche numero: fare smart woking porta a un recupero di efficienza per una media del 20% con punte fino al 50%, secondo l’osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano. Sul come e perché, due degli ultimi kink ricevuti, uno su alcuni casi concreti, un altro sulla ricerca Regus con 44.000 interviste effettuate a manager e professionisti in tutto il mondo.
Per ascoltare anche più di una storia, questo il link all'audio documentario Smart working. Contro il logorio della vita moderna che ho realizzato quest'anno per Rai Radio 3.
Lo smart working può anche iniziare con la gestione dei luoghi dentro l'azienda, riorganizzando gli spazi oltre la scrivania personale e l'open space di scrivanie personali, con buona pace di chi si porta pianta, biscotti e foto dei figli per tutti.
Per quanto riguarda la gestione del tempo, si può già ampliare la flessibilità oraria in entrata e uscita, dando e chiedendo più fiducia e senso di responsabilità.
Per convincere i più riottosi, lavoratori o aziende, qualche numero: fare smart woking porta a un recupero di efficienza per una media del 20% con punte fino al 50%, secondo l’osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano. Sul come e perché, due degli ultimi kink ricevuti, uno su alcuni casi concreti, un altro sulla ricerca Regus con 44.000 interviste effettuate a manager e professionisti in tutto il mondo.
Per ascoltare anche più di una storia, questo il link all'audio documentario Smart working. Contro il logorio della vita moderna che ho realizzato quest'anno per Rai Radio 3.
sabato 11 luglio 2015
Compiti per le vacanze
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Tara Vintage, cuffia anni Cinquanta |
Se non si ha un registratore, si può usare il proprio telefono e registrare. L'invito è proprio questo: non usare il telefono per parlare ma per stare zitti, in ascolto della realtà sonora così come viene a noi.
Raccogliere, fissare una situazione, ricordare le voci prima e le facce poi, forse, semmai...
Una volta a casa, a vacanza finita, riascoltare e ricostruire la situazione, regalare e regalarsi altri viaggi sonori.
Buon ascolto, buone vacanze.
mercoledì 10 giugno 2015
E tu sai cosa sono i pillars? #dilloinitaliano
"Cos'è una media company: i pillars"
La digital media company adotta un business model customer centric pensato in logica prodotto e non più in logica canale e capitalizza gli asset disponibili operando senza il filtro televisivo.
Si chiama Carlo Nardello, è direttore sviluppo strategico Rai e la scorsa settimana al Forum della Comunicazione a Roma ha usato anche questa slide nella sua presentazione sulla comunicazione digitale del servizio pubblico. Prima ha lavorato alla Disney, ci ha detto.
L’italiano è lingua ufficiale di sei paesi: l’Italia, il Vaticano, San Marino, la Svizzera italiana, la Slovenia e la Croazia.
Nei corridoi in azienda ho sentito qualche giorno un ragazzo che diceva, rammaricato: "Non ho deliverato", e nessuno ha potuto aiutarlo. Qualcuno non riesce neanche a "deployare", forse semplicemente a spiegarsi.
L'analfabetismo di ritorno si annida anche fuori la capacità di leggere e scrivere secondo quanto imparato a scuola, si annoda alla cravatta, strozza il pensiero libero, riduce i caratteri per farli stare dentro una slide, urla titoli. Fa arrossire la mamma che poi ti chiama e ti chiede se hai mangiato e si preoccupa se le dici che non hai avuto uno slot per arrivare al "food e beverage". Si preoccupa per la testa, mica per lo stomaco.
Ah, i pillars sono i pilastri, le colonne, insomma i fondamenti. Ma senti come suona strano, in italiano.
La digital media company adotta un business model customer centric pensato in logica prodotto e non più in logica canale e capitalizza gli asset disponibili operando senza il filtro televisivo.
Si chiama Carlo Nardello, è direttore sviluppo strategico Rai e la scorsa settimana al Forum della Comunicazione a Roma ha usato anche questa slide nella sua presentazione sulla comunicazione digitale del servizio pubblico. Prima ha lavorato alla Disney, ci ha detto.
L’italiano è lingua ufficiale di sei paesi: l’Italia, il Vaticano, San Marino, la Svizzera italiana, la Slovenia e la Croazia.
Nei corridoi in azienda ho sentito qualche giorno un ragazzo che diceva, rammaricato: "Non ho deliverato", e nessuno ha potuto aiutarlo. Qualcuno non riesce neanche a "deployare", forse semplicemente a spiegarsi.
L'analfabetismo di ritorno si annida anche fuori la capacità di leggere e scrivere secondo quanto imparato a scuola, si annoda alla cravatta, strozza il pensiero libero, riduce i caratteri per farli stare dentro una slide, urla titoli. Fa arrossire la mamma che poi ti chiama e ti chiede se hai mangiato e si preoccupa se le dici che non hai avuto uno slot per arrivare al "food e beverage". Si preoccupa per la testa, mica per lo stomaco.
Ah, i pillars sono i pilastri, le colonne, insomma i fondamenti. Ma senti come suona strano, in italiano.
domenica 17 maggio 2015
Fabio Fazio e Peppa Pig, come (non) ti porto l'inglese in tv
In quella manciata di secondi in cui l'auricolare dell'attore Michael Caine alla trasmissione domenicale "Che tempo che fa" di Fabio Fazio smette di funzionare, io capisco finalmente perché l'Italia è in crisi. Mi dà conferma il conduttore Fazio che, strizzando l'occhio al luogo comune per cui gli italiani le lingue non le sanno, rivela al pubblico e all'attore inglese che se l'audio dell'interprete non fosse tornato in tempo sarebbe stata una tragedia. Non chiede scusa ma usa la sua ignoranza, vera o presunta, verso la lingua straniera, per farci riconoscere tutti uguali, tutti egualmente mancanti di dimestichezza di altro linguaggio che non sia quello della Littizzetto a seguire e di altra lingua che non sia quella di Gramellini la sera del giorno prima. Che noia, Fazio. Che arroganza, Fabio.
Lasciaci stare sul divano o davanti al piatto in tavola e risolvitelo tu l'eventuale imbarazzo del tuo scarso o nullo inglese davanti alle telecamere e a Caine che ti guarda comunque attonito. Noi ti giudichiamo perché ti paghiamo e pretendiamo, da te e dalla Rai. Che poi è lo stesso servizio pubblico che, rivolto ai bambini, li invita su Rai Yo Yo a imparare l'inglese con Peppa Pig.
Perché il maiale sì e Fazio no? Perché i piccoli possono e i grandi non devono? Perché un conduttore non riesce a preparare e condurre un'intervista multilingua sulla rete pubblica?
L'Italia non è in crisi perché Fazio con gli ospiti stranieri non riesce ad andare oltre all'iniziale domanda How are you? ma perché, implicitamente ed esplicitamente, comunica che su quella domanda si può rimanere, ci si può accontentare, non si è soli anzi così simpatici e popolari.
E' invece un affronto all'impegno e agli sforzi di ogni ragazzo a scuola, di ogni sportivo che cerca il proprio limite per superarlo, di chi non bara, di chi non copia. Di chi ascolta la propria voce pronunciare parole "altre" e non ne ha paura anzi cura. Un po' come accade con le persone, che se rischi di conoscerle finisce pure che rischi che ti piacciano e non le molli più. Chissà se a Fazio la sua voce piace, lui che faceva l'imitatore non dovrebbe temere i suoni e conoscere le persone, no?
Lasciaci stare sul divano o davanti al piatto in tavola e risolvitelo tu l'eventuale imbarazzo del tuo scarso o nullo inglese davanti alle telecamere e a Caine che ti guarda comunque attonito. Noi ti giudichiamo perché ti paghiamo e pretendiamo, da te e dalla Rai. Che poi è lo stesso servizio pubblico che, rivolto ai bambini, li invita su Rai Yo Yo a imparare l'inglese con Peppa Pig.
Perché il maiale sì e Fazio no? Perché i piccoli possono e i grandi non devono? Perché un conduttore non riesce a preparare e condurre un'intervista multilingua sulla rete pubblica?
L'Italia non è in crisi perché Fazio con gli ospiti stranieri non riesce ad andare oltre all'iniziale domanda How are you? ma perché, implicitamente ed esplicitamente, comunica che su quella domanda si può rimanere, ci si può accontentare, non si è soli anzi così simpatici e popolari.
E' invece un affronto all'impegno e agli sforzi di ogni ragazzo a scuola, di ogni sportivo che cerca il proprio limite per superarlo, di chi non bara, di chi non copia. Di chi ascolta la propria voce pronunciare parole "altre" e non ne ha paura anzi cura. Un po' come accade con le persone, che se rischi di conoscerle finisce pure che rischi che ti piacciano e non le molli più. Chissà se a Fazio la sua voce piace, lui che faceva l'imitatore non dovrebbe temere i suoni e conoscere le persone, no?
domenica 3 maggio 2015
Ma poi cos'è un Daredevil rosso?
Per Tess
Giù nello Stretto le onde schiumano
come dicono qui. Il mare è mosso e meno male
che non sono uscito. Sono contento d'aver pescato
tutto il giorno a Morse Creek, trascinando avanti
e indietro un Daredevil rosso. Non ho preso niente.
Neanche un morso. Ma mi sta bene così. E' stato bello!
Avevo con me il temperino di tuo padre e sono stato seguito per un po' da una cagnetta che i padroni chiamavano Dixie.
A volte mi sentivo così felice che dovevo smettere
di pescare. A un certo punto mi sono sdraiato sulla sponda
e ho chiuso gli occhi per ascoltare il rumore che faceva l'acqua
che soffia giù nello Stretto, eppure è diverso.
Per un po' mi sono concesso il lusso di immaginare che ero morto
e mi stava bene anche quello, almeno per un paio
di minuti, finché non me ne sono ben reso conto: Morto.
Mentre me ne stavo lì sdraiato a occhi chiusi,
dopo essermi immaginato come sarebbe stato
se no avessi davvero potuto più rialzarmi, ho pensato a te.
Ho aperto gli occhi e mi sono alzato subito
e son ritornato a esser contento.
E' che te ne sono grato, capisci. E te lo volevo dire.
Nell'ultimo post parlavamo di poesie, eccone qui una. Fu scritta da Raymond Carver, che ce la apre come fosse una cozza nel libro Il mestiere di scrivere, che per tutti gli amanti di pagine scritte e punti, punti e virgola è un riferimento importante.
Quanto poco pudore, questo Carver che passa con disinvoltura dall'amo di pesca all'amo verso Tess, e poi chi è Tess? Non la nomina mai, se non nel titolo. Ci dice che ha un padre che aveva un temperino, semmai. Ci fa ascoltare il rumore del mare appiattito sulla sponda come fosse morto, ci ricorda che le onde "schiumano" e allora le orecchie dei ragazzi di oggi potrebbero rizzarsi come quelle della cagnetta Dixie al suono di una parola conosciuta che loro usano spesso per indicare quando sono arrabbiati, "fuori di sé dall'ira", dice il dizionario Treccani e allora quanto sono bravi a passare a un uso figurato della stessa parola che nasce dal mare.
E poi il gran finale, la necessità di dire quello che si prova. E quella "e" dopo l'ultimo punto si ribella a tutte le regole di grammatica delle elementari e delle prof nelle scuole a seguire e aiuta il sentimento a uscire e diventare pubblico. Applauso.
Ecco, queste sono solo alcune note di quello che accade dentro la poesia, Carver non si ferma: con la stessa disinvoltura nel libro che la contiene ci dice perché l'ha scritta e prima di tutto cos'è una poesia.
"Ricordatevi che una poesia non è soltanto un atto di espressione personale. Una poesia o un racconto è un atto di comunicazione tra lo scrittore e il lettore. [...] Credo di essere nel giusto quando penso che quella di essere capito sia una premessa fondamentale da cui qualsiasi buon scrittore deve prendere le mosse o, piuttosto, una meta da prefiggersi.
Ma poi cos'è un Daredevil rosso?;-)
Giù nello Stretto le onde schiumano
come dicono qui. Il mare è mosso e meno male
che non sono uscito. Sono contento d'aver pescato
tutto il giorno a Morse Creek, trascinando avanti
e indietro un Daredevil rosso. Non ho preso niente.
Neanche un morso. Ma mi sta bene così. E' stato bello!
Avevo con me il temperino di tuo padre e sono stato seguito per un po' da una cagnetta che i padroni chiamavano Dixie.
A volte mi sentivo così felice che dovevo smettere
di pescare. A un certo punto mi sono sdraiato sulla sponda
e ho chiuso gli occhi per ascoltare il rumore che faceva l'acqua
che soffia giù nello Stretto, eppure è diverso.
Per un po' mi sono concesso il lusso di immaginare che ero morto
e mi stava bene anche quello, almeno per un paio
di minuti, finché non me ne sono ben reso conto: Morto.
Mentre me ne stavo lì sdraiato a occhi chiusi,
dopo essermi immaginato come sarebbe stato
se no avessi davvero potuto più rialzarmi, ho pensato a te.
Ho aperto gli occhi e mi sono alzato subito
e son ritornato a esser contento.
E' che te ne sono grato, capisci. E te lo volevo dire.
Nell'ultimo post parlavamo di poesie, eccone qui una. Fu scritta da Raymond Carver, che ce la apre come fosse una cozza nel libro Il mestiere di scrivere, che per tutti gli amanti di pagine scritte e punti, punti e virgola è un riferimento importante.
Quanto poco pudore, questo Carver che passa con disinvoltura dall'amo di pesca all'amo verso Tess, e poi chi è Tess? Non la nomina mai, se non nel titolo. Ci dice che ha un padre che aveva un temperino, semmai. Ci fa ascoltare il rumore del mare appiattito sulla sponda come fosse morto, ci ricorda che le onde "schiumano" e allora le orecchie dei ragazzi di oggi potrebbero rizzarsi come quelle della cagnetta Dixie al suono di una parola conosciuta che loro usano spesso per indicare quando sono arrabbiati, "fuori di sé dall'ira", dice il dizionario Treccani e allora quanto sono bravi a passare a un uso figurato della stessa parola che nasce dal mare.
E poi il gran finale, la necessità di dire quello che si prova. E quella "e" dopo l'ultimo punto si ribella a tutte le regole di grammatica delle elementari e delle prof nelle scuole a seguire e aiuta il sentimento a uscire e diventare pubblico. Applauso.
Ecco, queste sono solo alcune note di quello che accade dentro la poesia, Carver non si ferma: con la stessa disinvoltura nel libro che la contiene ci dice perché l'ha scritta e prima di tutto cos'è una poesia.
"Ricordatevi che una poesia non è soltanto un atto di espressione personale. Una poesia o un racconto è un atto di comunicazione tra lo scrittore e il lettore. [...] Credo di essere nel giusto quando penso che quella di essere capito sia una premessa fondamentale da cui qualsiasi buon scrittore deve prendere le mosse o, piuttosto, una meta da prefiggersi.
Ma poi cos'è un Daredevil rosso?;-)
mercoledì 8 aprile 2015
Lo smart working? Come la vocazione per i sacerdoti
Su Twitter è #lavoroagile15 e in pochi caratteri vengono fuori le esperienze di aziende che producono tecnologia per comunicare e quindi lavorare a distanza, quelle di telelavoratori felici, le riflessioni di chi ha partecipato alla seconda edizione della Giornata del Lavoro Agile promossa dal Comune di Milano il 25 marzo scorso, chi vorrebbe ma non può, chi lascia un commento citando perfino l'esperienza dei sacerdoti "nessun timbro di cartellino, solo una grande vocazione e dedizione alla propria missione".
E' lo smart working, insomma, la possibilità di lavorare in modo flessibile nei tempi, negli spazi, nell'organizzazione.
Devo ammetterlo, allo smart working paragonato al modo in cui compiono la loro missione i sacerdoti non avevo ancora pensato, e certo è affascinante, perché richiede di essere un lavoratore maturo e consapevole che non ha bisogno del controllo di capi e azienda ma che resta fedele e responsabile mentre porta a termine il progetto... Viceversa, anche all'azienda si richiede un atto di fede, appunto, nell'affidare compiti e iniziative senza ansie e richieste di stato avanzamento lavori ogni giorno.
Tuttavia è rischioso pensare allo smart working solo in questi termini, perché proprio i detrattori di questa modalità di lavoro più flessibile potrebbero ravvisare i rischi di "essere sempre sul pezzo", "non staccare mai", insomma lavorare senza tempo e senza luogo proprio come fanno i sacerdoti, almeno quelli da manuale.
Secondo l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, in Italia solo l’8% delle aziende ha adottato pienamente il modello di lavoro “smart” di organizzazione del lavoro. Eppure già oltre metà degli impiegati, quadri e dirigenti lavora per almeno parte dell’orario secondo questa nuova modalità.
Come dire, già siamo in qualche modo sacerdoti di una nuova modalità di lavoro, sta a noi farla diventare mentalità senza cascarci dentro e farci male. Al contrario, usando i vantaggi che porta con sé per vivere in modo equilibrato ogni impegno giornaliero, recuperare entusiasmo per il lavoro e gli affetti, dare una mano all'ambiente riducendo spostamenti non sempre necessari, dare valore alle relazioni d'ufficio anche fuori ufficio. Insomma, credere che tutto questa sia possibile, proprio come i sacerdoti.
Per scoprire come fare e perché farlo sto preparando un audio documentario raccogliendo molte voci diverse che hanno accettato di ragionare con me sui pro i contro di un lavoro che mai come oggi richiede di essere ripensato nelle forme e nei tempi per essere di più dalla parte di chi lo svolge, lo cerca, lo vive senza volerlo subire.
E' lo smart working, insomma, la possibilità di lavorare in modo flessibile nei tempi, negli spazi, nell'organizzazione.
Devo ammetterlo, allo smart working paragonato al modo in cui compiono la loro missione i sacerdoti non avevo ancora pensato, e certo è affascinante, perché richiede di essere un lavoratore maturo e consapevole che non ha bisogno del controllo di capi e azienda ma che resta fedele e responsabile mentre porta a termine il progetto... Viceversa, anche all'azienda si richiede un atto di fede, appunto, nell'affidare compiti e iniziative senza ansie e richieste di stato avanzamento lavori ogni giorno.
Tuttavia è rischioso pensare allo smart working solo in questi termini, perché proprio i detrattori di questa modalità di lavoro più flessibile potrebbero ravvisare i rischi di "essere sempre sul pezzo", "non staccare mai", insomma lavorare senza tempo e senza luogo proprio come fanno i sacerdoti, almeno quelli da manuale.
Secondo l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, in Italia solo l’8% delle aziende ha adottato pienamente il modello di lavoro “smart” di organizzazione del lavoro. Eppure già oltre metà degli impiegati, quadri e dirigenti lavora per almeno parte dell’orario secondo questa nuova modalità.
Come dire, già siamo in qualche modo sacerdoti di una nuova modalità di lavoro, sta a noi farla diventare mentalità senza cascarci dentro e farci male. Al contrario, usando i vantaggi che porta con sé per vivere in modo equilibrato ogni impegno giornaliero, recuperare entusiasmo per il lavoro e gli affetti, dare una mano all'ambiente riducendo spostamenti non sempre necessari, dare valore alle relazioni d'ufficio anche fuori ufficio. Insomma, credere che tutto questa sia possibile, proprio come i sacerdoti.
Per scoprire come fare e perché farlo sto preparando un audio documentario raccogliendo molte voci diverse che hanno accettato di ragionare con me sui pro i contro di un lavoro che mai come oggi richiede di essere ripensato nelle forme e nei tempi per essere di più dalla parte di chi lo svolge, lo cerca, lo vive senza volerlo subire.
giovedì 2 aprile 2015
Silvia e Teresa, donne sfacciate
Silvia lavora in panetteria, il pane non lo fa ma lo vende. E' giovane, sposata, ha un bambino piccolo. Qualche settimana fa si ammala, influenza che dura, ricovero in ospedale, niente di grave ma continuano anche oggi gli accertamenti per scoprire come mai sia tanto debole. Maria non ha un contratto, è "in prova", è andata al lavoro con la febbre e teme di perderlo.
Teresa lavora in una multinazionale e si occupa di finanza, è single, laureata, da ieri in malattia. Ha un contratto a tempo determinato e poco tempo per fare i controlli che vorrebbe: l'influenza quest'anno è particolarmente fastidiosa, le chiedono "quanto hai?" e non si riferiscono all'età, non sarebbe politically correct. Se la risposta è 38 non c'è sanzione sociale e si resta a casa con la coscienza tranquilla, se il numero è più basso "non è febbre" e si può fare squadra anche nell'esperienza virale.
In entrambi i casi la malattia non è un diritto ma un fastidio per la micro o macro organizzazione, in nessun caso però si sospetta l'assenteismo: troppo poco tempo in panetteria per Silvia per innescare un fenomeno, troppo tempo in azienda per Teresa per destare sospetti sulla sua produttività e sul suo senso di appartenenza. Eppure.
Eppure più di controlli, medico fiscale, allontanamenti dal posto di lavoro vale lo sguardo della società a cui forse danno fastidio: le colleghe di Silvia e l'open space di Teresa non perdonano, basta un giorno perché le due ragazze che ricevono le telefonate "carine" dei compagni di giornata siano etichettate comunque come deboli, inutili, problematiche. In un attimo le lunghe serate dietro report in inglese e la solerzia a servire fino all'ultimo cliente la vigilia di ogni giorno di festa sono state dimenticate.
A me viene il sospetto che sia proprio la malattia in sé a fare paura e anche una banale influenza deve essere allontanata: non ci si può ammalare nel frenetico mondo in cui tutti devono servire a qualcosa. Le persone che si fermano, loro malgrado, devono essere fermate a loro volta.
Silvia e Teresa sono donne sfacciate, non lo sanno ma stanno provocando reazioni nei loro ambienti di lavoro. Quindi grazie e buona guarigione.
Teresa lavora in una multinazionale e si occupa di finanza, è single, laureata, da ieri in malattia. Ha un contratto a tempo determinato e poco tempo per fare i controlli che vorrebbe: l'influenza quest'anno è particolarmente fastidiosa, le chiedono "quanto hai?" e non si riferiscono all'età, non sarebbe politically correct. Se la risposta è 38 non c'è sanzione sociale e si resta a casa con la coscienza tranquilla, se il numero è più basso "non è febbre" e si può fare squadra anche nell'esperienza virale.
In entrambi i casi la malattia non è un diritto ma un fastidio per la micro o macro organizzazione, in nessun caso però si sospetta l'assenteismo: troppo poco tempo in panetteria per Silvia per innescare un fenomeno, troppo tempo in azienda per Teresa per destare sospetti sulla sua produttività e sul suo senso di appartenenza. Eppure.
Eppure più di controlli, medico fiscale, allontanamenti dal posto di lavoro vale lo sguardo della società a cui forse danno fastidio: le colleghe di Silvia e l'open space di Teresa non perdonano, basta un giorno perché le due ragazze che ricevono le telefonate "carine" dei compagni di giornata siano etichettate comunque come deboli, inutili, problematiche. In un attimo le lunghe serate dietro report in inglese e la solerzia a servire fino all'ultimo cliente la vigilia di ogni giorno di festa sono state dimenticate.
A me viene il sospetto che sia proprio la malattia in sé a fare paura e anche una banale influenza deve essere allontanata: non ci si può ammalare nel frenetico mondo in cui tutti devono servire a qualcosa. Le persone che si fermano, loro malgrado, devono essere fermate a loro volta.
Silvia e Teresa sono donne sfacciate, non lo sanno ma stanno provocando reazioni nei loro ambienti di lavoro. Quindi grazie e buona guarigione.
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