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lunedì 3 luglio 2017

Ancora su Fantozzi: il lavoro, le parole e i suoi tempi

Stiamo peggio oggi o ai tempi di Fantozzi?

Alessandro Gilioli su l'Espresso non dà l'altra opzione, non cerca un meglio possibile, esiste solo il peggio e il meno peggio: è dentro questa categoria che si può scegliere, forse. Il titolo del pezzo dedicato alla scomparsa di Paolo Villaggio si muove infatti nella consapevolezza che il lavoro ai nostri tempi sia un orizzonte precario, fatto di situazioni fasulle e di linguaggi che alterano volutamente la realtà.

Quello che manca oggi è l'azienda, la solidità di un contratto e di uno stipendio, l'abitudine rassicurante di incontrare le stesse facce di ogni giorno e di provare gli stessi sentimenti anche di odio, l'odio era ammesso ai tempi di Fantozzi.

L'articolo non fa sconti e allo stesso tempo non approfondisce, ma chissà quante volte abbiamo sentito i racconti di genitori, amici più grandi, noi stessi allo specchio del bagno per sapere che è tutto vero e che possiamo chiuderlo proprio noi, il pezzo coi pezzi di realtà mancante.

L'odio di Fantozzi era un sentimento, un legame, una forma di affetto perverso in tempi che non sapevano cosa fosse l'engagement e l'outdoor - uso altre parole per variare quelle dell'autore:-) - in cui si lodava il golfino di lana fatto a maglia per la nipotina della collega amica, perché di fondo si riconoscevano precise carte d'identità, cose persone, ruoli e soprannomi. A pelle non mi sarebbero piaciuti i golfini di lana così la pelle prude ai fuori porta che non siano gite fra amici.

"Non si riesce più nemmeno a ridere, parlando di lavoro, oggi". Finisce così l'articolo, ed è agghiacciante. Bisogna però continuare a narrare il lavoro, cercare le chiavi per riderne e piangerne insieme.







venerdì 22 aprile 2016

120 secondi, esperimenti di ascolto di gruppo in ufficio

Circa 30 persone ascoltano un file audio di circa due minuti. La luce del sole illumina la sala, le sedie sono scomposte e le 30 persone hanno fame: la soglia di attenzione è bassa, forse bassissima. Poi tocca a me, ho già parlato introducendo in maniera teaser il contributo, insomma ho biascicato qualcosa cercando di tirare il pubblico verso la scoperta di una micro storia che ascolteranno solo, soli anche se insieme. Panico. Li guardo poco durante il breve ascolto per non imbarazzarli, mi guardano tanto perché cercano qualcosa. Sono solo 120 secondi, durano un'eternità.

Perché?

Perché loro hanno bisogno di punti di appoggio visivi durante l'ascolto, perché io sono il punto di appoggio e sento addosso quanto pesa il dubbio di essere stati fregati: soltanto le orecchie e non anche gli occhi? E però le voci che ascoltiamo sono potenti, le affermazioni anche, qualcuno sorride e quando al termine dei 120 secondi di eternità esplicito la difficoltà comune legata a non essere più abituati ad ascoltare, soprattutto in gruppo... li libero dal mio peso e molti sorridono convinti. Eh, ora puoi parlare, ora ti ascoltiamo, che fatto incredibile, che ansia fosse durato di più.



Cosa?

L'esperienza dell'ascolto collettivo che, mea culpa, deve essere preparato con cura, tanta, dosando bene il tempo a disposizione per dire con quello per far ascoltare e intuendo il tipo di pubblico e il contesto. Eravamo nella grande azienda, eravamo noi che facciamo comunicazione, diamine, e che per questo tendiamo a fare, appunto, prima che ad ascoltare, errore. Eravamo stanchi e affamati, me compresa, col fine settimana lungo già nella testa... E poi le orecchie, il mix di voci diverse, una rubrica che era nata su carta, passata online, ora anche in forma audio ogni volta diversa: interviste certo ma non solo, la ricostruzione di storie di passioni personali e di amore per il proprio lavoro, altro mix micidiale. C'è da rimanere stesi dal carico di umanità che 120 e più secondi si portano con sé.

Ritrovo l'umanità nel momento del pranzo, voraci sulla pasta, subito sazi, ancora imbarazzati ma felici. Si avvicina una collega e mi dice stupita che non sapeva che esistesse la possibilità di esprimersi anche così...


Come?

Avrei voluto citare luoghi, esperienze, fatti e persone da cui imparo ad ascoltare e a fare, non ci sono riuscita, ecco; avrei voluto dire che non faccio solo quello in ufficio, anzi pure se innaffio ogni giorno questa piantina che cresce bene, lei è solo una del vivaio di cui mi occupo e che ospita fiori e piante tanto diverse, anche carnivore, non sono riuscita neanche in questo. Avrei anche voluto spiegare il necessario distacco mentre si costruiscono micro storie di vita ma la mia voce era emozionata e sembrava tradirmi nel contenuto. Insomma una disfatta:-)
Invece metto per iscritto e rifletto sul fatto importante di cui sono orgogliosa, quello di aver portato l'audio in azienda, a disposizione di tutti, senza sconti né interessi, lentamente ma inesorabilmente, senza grida ma con tenacia. Grazie a chi ha detto sì e continua a farmi fare, a fidarsi della potenza del suono. Che continuerà sempre a fare paura e per questo attrae. Non solo. Oggi abbiamo vissuto un'esperienza che pochi fanno in contesti da sale vetrate e cravatte tranne il venerdì: ascoltare insieme   voci e non facce può disorientare, puoi innervosirti parecchio, puoi fidarti che non ti sarà fatto alcun male.

Ho chiuso con una call to action, guarda un po', semplicemente l'invito ad ascoltare e a provare a raccontare insieme una storia di lavoro e di passioni (lo so, in tempo di lavoro che non c'è, di fatiche, di piagnistei e di distorsioni dei diritti sembra un ossimoro, ma tant'è).

Qualcuno dice, "finché dura...", io dico "120 secondi di antipasto li abbiamo presi, poi ci sederemo a tavola per bene".






domenica 17 aprile 2016

Quello spazio mentale, fonte di felicità

Tanti anni fa a un'amica al mare rivelai che il sogno a occhi aperti che mi faceva stare bene era la coreografia di uno spettacolo di teatro-danza. Non provai nemmeno a spiegarle tanto perché lei, che si stava laureando in psicologia, mi confermò che esistono processi di questo tipo, che sono "scientifici" e necessari e che si tratta di iniezioni di benessere non solo per la testa. Non disse proprio così, anzi sicuramente mi parlò con cognizione di causa usando un linguaggio semplice ma tecnico, io a distanza di anni ricordo solo che qualcuno non si stupì della mia immaginazione diurna: attivavo aree di salvezza quotidiana, fonti di felicità, oserei dire. Lo potevo perfino dire, non ero matta, non ero la sola, sui libri ci stava.

Qualche giorno fa un'amica su Facebook chiede "Qual è il vostro pensiero felice? Quello che vi permette di volare?" Ci risiamo, ho pensato, riecco la coreografia.

Riecco stranamente il fatto che pur amando ballare non ne sono capace, che sempre ho provato ma mai con l'intenzione di impegno e costanza, che ho iniziato tardi e che neanche possiedo una particolare predisposizione. Eppure amo il corpo che sa stare nello spazio, fermo e in movimento. Amo la musica che c'è dentro e quella che puoi seguire fuori. Amo chi si muove con consapevolezza, leggero e sicuro.

Non la ballerina, no, la coreografa addirittura, la regista... la visione d'insieme, le indicazioni da dare, le intenzioni da passare... Sono passati anni e qualche giorno fa, durante la preparazione di un'intervista a un'esperto di comunicazione rivolta ai giovani, un collega mi chiede: "E tu, cosa volevi fare da grande?" Dopo aver detto il consueto "veterinario" e svelato il folle "portiere di calcio", sono passata alla scrittrice - stavolta ho usato il femminile, guarda un po' come pesano le abitudini culturali -, l'unico vero mestiere a cui dedico da sempre il mio tempo, pagato e non.
Solo dopo un po' ho pensato alla zona di benessere mentale a cui non ho mai veramente prestato tempo e voce e impegno. Solo dopo un po' ho capito che quella zona però esce fuori ogni volta che di un testo da rivedere pretendo il progetto nella sua totalità, quando in un video da preparare impiego giorni nella progettazione e resto attaccata ai tecnici durante la produzione e la post produzione.

Cos'è? E' il desiderio di partecipazione collettiva, di spettacolo da mettere su insieme. Mi piace stare concentrata nella fase di redazione ma da tempo non riesco a fare solo quello, ho necessità di uscire fuori e condividere, di aprire la porta della stanza e chiedere a che punto siamo con gli altri pezzi del puzzle. E ogni volta è un corpo a corpo: usciamo stanchi, sudati, soddisfatti, con tante cose da raccontare ancora. Tornerò sull'argomento;-)






martedì 2 febbraio 2016

Come lavoro, come lavoriamo

Diversi anni fa comprai un numero fondamentale della rivista Nuovi Argomenti, fondamentale per me, almeno. Il titolo era Come lavoro e raccoglieva contributi tanti e diversi sul lavoro e sul lavoro di scrittore in particolare. Per quest'ultimo una raffica di domande metteva in luce quanto l'attività editoriale fosse la più contigua e praticata da coloro che non alla fine non vivano di sola scrittura, ma in mezzo mettevano altri lavori, gli affetti, il sostegno dei genitori, i casi della vita. Emergevano ritratti onesti dell'Italia che scrive o che comunque traffica con la parola scritta, benedizione e condanna.

Avevano risposto nomi come quello di Nicola Lagioia, Francesco Piccolo, Emanuele Trevi, vado a memoria, e a loro undici anni dopo, cioè nel 2013, sono state fatte le stesse domande, le trovate qui, sul sito della rivista. La forza stava proprio nel ritratto che veniva fuori dalla scrittura.


Dalla domanda che possiede tutta la sua forza anche, e forse soprattutto, senza punto interrogativo - "Come lavoro", appunto, - siamo passati negli ultimi a diverse narrazioni multimediali che hanno al centro proprio il lavoro e la voce degli interessati al centro della narrazione.


E' il caso, per esempio, di Ways We Work, storie e racconti di prima mano su come le persone fanno e danno al lavoro un significato che va oltre il soldo. Sì, proprio il soldo, al singolare. Per capire lo spirito e gli intenti del progetto che scova a fa raccontare storie di lavoro segnalo l'intervista coi responsabili del progetto, Matt Quinn and Amandah Wood.

"It’s finding that balance between the project and making sure you’re not dropping the ball somewhere else".
Consiglio per chiunque voglia lanciarsi in nuove iniziative. E invito a raccontarsi il proprio lavoro senza raccontarsi storie.

"The whole mission behind the project is about bringing down barriers between what people want to do when it comes to meaningful work and then how they can do that as a living".










mercoledì 14 ottobre 2015

Mi sento osservato da dentro, le telecamere ai tempi dello smart working

Lo Statuto dei lavoratori - legge 300/1970, articolo 4 - vieta ai datori di lavoro l'uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per controllare a distanza l'attività dei lavoratori.

Il 20 ottobre a Milano l'Osservatorio Smart Working del Politecnico organizza il convegno di presentazione dei risultati della Ricerca 2015 sulla progettazione, regolamentazione, diffusione dello smart working in Italia.

Il Consiglio dei Ministi ha approvato gli ultimi quattro decreti del Jobs act, tra cui quello che prevede la "semplificazione dei rapporti di lavoro", e quindi le telecamere potranno essere accese solo dopo la firma di un accordo con i sindacati o con il ministero del Lavoro, e allora l'art. 4 dello Statuto dei lavoratori rimane salvo. 
Per gli smartphone così come per i tornelli all’ingresso dell’azienda, invece, non varrà la stessa logica e allora non ci sarà bisogno di autorizzazioni: gli strumenti di lavoro permetteranno di controllare i dipendenti. E le informazioni raccolte usando gli strumenti aziendali potranno poi essere usate dal datore di lavoro nell’ambito di provvedimenti disciplinari.

Vedi come l'Italia oscilla tra norme e regole, agilità e contenuti. Ce la faremo a tutelarci e far rispettare la nostra privacy pur lavorando tanto e anche fuori azienda? 

Chiunque voglia realizzare progetti di smart working dovrà tenere presente l'aggiornamento alla normativa, per non far spaventare le aziende da un lato e il lavoratore dall'altra. Senza contare che è sul limite fra controllo e fiducia, diritti e doveri il gioco a cui tutti siamo chiamati a prendere parte.




venerdì 11 settembre 2015

Buon anno, di ascolto e relazioni

Dov'eravamo rimasti? Le vacanze, il registratore, le linguette ai libri per non dimenticare passaggi belli, insomma il nostro presente e la nostra memoria.

Uno dei metodi per allenarla, la memoria, e mantenerla giovane e capace di assorbire, elaborare e creare è l'atto primo di ogni conversazione e incontro, cioè l'ascolto. Che poi è anche, guarda un po', uno dei "ferri del mestiere" di editor, quello fondamentale e impastato di rispetto e attesa oltreché di orecchie.

A chi smonta e rimonta testi per lavoro il suggerimento è sempre quello di leggerli e rileggerli a voce alta per sentire se la voce inciampa o cammina spedita, se ha un'andatura sicura o sbilenca, se basta allacciare meglio una scarpa o se il terreno è di sabbia e conviene provare a stare a piedi nudi. Anche qui ci vuole allenamento, niente di esagerato ma anche niente di improvvisato. Insomma, affidarsi al suono e non solo alla mano e alla vista.

Mi rendo conto solo ora che c'è un momento che perfino precede i suoni, ed è semplicemente la relazione con se stessi. Lo scopro ancora in questo momento in cui ho appena finito di evidenziare la parola "relazione" della riga precedente e per cui ho scelto di non prendere anche l'articolo determinativo che la precede: non l'ho fatto solo perché così fan tutti, è comodo per il copia e incolla e i motori di ricerca, il significato passa per la parola lunga mica per l'articolo corto... e invece l'ho fatto soprattutt perché la voce si è interrotta subito dopo l'articolo e la parola "relazione" e per di più "con se stessi" è uscita con un'enfasi maggiore della forza delle lettere sulla tastiera. Perché mi sono fermata? Perché ho fatto quella brevissima eppure importante pausa? Perché ci credo, perché stava per arrivare il climax dell'intera frase. Perché era quello il punto su cui volevo portare l'attenzione e poi mettere sì il punto. Poi spiego.

Non che siamo sempre consapevoli di tutto questo processo mentre scriviamo, possiamo diventarlo nella fase precedente se ascoltiamo la nostra voce interiore e quindi le intenzioni che ci guidano a trattare un testo in un modo o nell'altro e possiamo diventarlo nella fase successiva, quella della revisione a voce alta.

"La parola ha senso solo in quanto è in rapporto con la profondità del proprio essere, che non è solo il giudizio che dà la mente, ma che è fatta dalle emozioni, dalle sensazioni, dalla memoria". Così sulla "Domenica" del Sole 24 Ore il 23 agosto scorso il poeta Franco Loi a proposito della poesia.

I suoni: guida per l'inconscio
è il secondo "appuntamento" di una serie dedicata alla poesia, che mannaggia sembra sempre così lontana dalla realtà quando invece riacciuffa il passato e lo rende eterno presente e noi eterni ragazzi immersi nell'attimo fuggente.

Finite le vacanze e dopo aver usato il registratore, torno a fare l'editor, quindi ad ascoltarmi e ascoltare i suoni che arrivano attraverso la parola scritta e quella parlata. Buon anno a tutti.





mercoledì 5 agosto 2015

Si fa presto a dire smart working

Buffo che in questa calda estate in molti dal fresco degli uffici con l'aria condizionata mi inviino link ad articoli, post e commenti sul tema smart working. Sono amici, amici di amici, conoscenti e contatti vari che chiedono una possibilità diversa, in fondo quella di stare con la sabbia o coi ghiaccioli ai piedi, vicino ai bambini che hanno finito anche il centro estivo, evitando di aspettare o salire sui mezzi pubblici che s'inceppano per arrivare al lavoro.

Lo smart working può anche iniziare con la gestione dei luoghi dentro l'azienda, riorganizzando gli spazi oltre la scrivania personale e l'open space di scrivanie personali, con buona pace di chi si porta pianta, biscotti e foto dei figli per tutti. 
Per quanto riguarda la gestione del tempo, si può già ampliare la flessibilità oraria in entrata e uscita, dando e chiedendo più fiducia e senso di responsabilità.

Per convincere i più riottosi, lavoratori o aziende, qualche numero: fare smart woking porta a un recupero di efficienza per una media del 20% con punte fino al 50%, secondo l’osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano. Sul come e perché, due degli ultimi kink ricevuti, uno su alcuni casi concreti, un altro sulla ricerca Regus con 44.000 interviste effettuate a manager e professionisti in tutto il mondo.

Per ascoltare anche più di una storia, questo il link all'audio documentario Smart working. Contro il logorio della vita moderna che ho realizzato quest'anno per Rai Radio 3.



 




mercoledì 10 giugno 2015

E tu sai cosa sono i pillars? #dilloinitaliano

"Cos'è una media company: i pillars"

La digital media company adotta un business model customer centric pensato in logica prodotto e non più in logica canale e capitalizza gli asset disponibili operando senza il filtro televisivo.


Si chiama Carlo Nardello, è direttore sviluppo strategico Rai e la scorsa settimana al Forum della Comunicazione a Roma ha usato anche questa slide nella sua presentazione sulla comunicazione digitale del servizio pubblico. Prima ha lavorato alla Disney, ci ha detto.


L’italiano è lingua ufficiale di sei paesi: l’Italia, il Vaticano, San Marino, la Svizzera italiana, la Slovenia e la Croazia.

Nei corridoi in azienda ho sentito qualche giorno un ragazzo che diceva, rammaricato: "Non ho deliverato", e nessuno ha potuto aiutarlo. Qualcuno non riesce neanche a "deployare", forse semplicemente a spiegarsi.

L'analfabetismo di ritorno si annida anche fuori la capacità di leggere e scrivere secondo quanto imparato a scuola, si annoda alla cravatta, strozza il pensiero libero, riduce i caratteri per farli stare dentro una slide, urla titoli. Fa arrossire la mamma che poi ti chiama e ti chiede se hai mangiato e si preoccupa se le dici che non hai avuto uno slot per arrivare al "food e beverage". Si preoccupa per la testa, mica per lo stomaco.

Ah, i pillars sono i pilastri, le colonne, insomma i fondamenti. Ma senti come suona strano, in italiano.




domenica 31 maggio 2015

Smart working. Contro il logorio della vita moderna

Quante cose rimangono fuori da un audio documentario, un po' come i pezzi di un vestito che puoi riusare per colletti, per la cinta, per un fiocchetto messo dove ora va bene così. Non so creare un vestito e l'immagine di una stoffa verde che prende forma viene dal cassetto della memoria a casa di mia nonna, lei sì brava sarta.

E proprio mia nonna è quel pezzetto di stoffa che non ho usato per il mio nuovo audio documentario sullo smart working ma che vorrei proprio farvi ascoltare perché mia nonna l'ho registrata, l'ho conquistata con un dolce al cioccolato di cui va matta, l'ho ascoltata. E alla fine, d'accordo con lei, l'ho lasciata per il fiocchetto a vestito ultimato.

Ecco, facciamo così, ora vi scrivo poche righe sul progetto che da domani potete ascoltare in radio, poi mia nonna che parla di lavoro ce la sentiamo tra un po', in una super podcast tutto per lei, ci state? Un audio documentario è anche questo, l'immersione in molteplici realtà, la scelta di quali raccontare, il sacchetto con altro materiale prezioso che mai sarà scarto ma anzi tesoro.

Si chiama Smart working. Contro il logorio della vita moderna (l'omaggio alla réclame con Ernesto Calindri è nota a tutti, vero?) e va in onda da domani 1 giugno a venerdì 5 giugno su Radio Tre Rai per il programma Tre Soldi. L'orario è dalle 19.45 alle 20.00
Cinque puntate per capire insieme cosa significa il lavoro "agile", ma non flessibile, e se reputiamo utile riorganizzare tempi e luoghi di lavoro. Per fare questo, qui sotto alcune domande-guida:

Sono più o meno responsabile se durante lo sciopero dei mezzi pubblici resto a casa a lavorare invece di cercare di raggiungere il posto di lavoro accumulando ritardo con qualsiasi altro mezzo a mia disposizione? Posso rinunciare al flirt col collega per quello col barista sotto casa, se proprio sono pigro e non guardo altrove? Quanto sta male il mio capo se non mi vede per tutto un giorno? Quanto mi manca la macchinetta del caffè e le chiacchiere coi colleghi che non sopporto?
Se al parco col pc mi cade un ramo in testa chiamo il capo, il sindacato, il marito o risalgo fino agli avi? 


E qui il trailer audio, buon ascolto.





I piedi e il tablet sono di Adriano, un signore che ho disturbato in pausa pranzo nel verde vicino al lavoro. Grazie ancora della collaborazione, siamo stati "smart".

martedì 26 maggio 2015

Hey, Teachers, leave those kids alone! ... soli ma non troppo

Il sistema scolastico che opprime e il sistema fabbrica che aliena. Gli studenti col volto coperto e gli gli operai che marciano lenti: il video Another Brick in the Wall dei Pink Floyd come il film Metropolis di Fritz Lang.

"Lasciateci stare" ma al tempo stesso "non perdeteci di vista", non per controllare ma per costruire reti di fiducia. Nell'ora d'aria giochiamo in cortile e pretendiamo che gli insegnanti stiano con noi ma non al cellulare o a fumare tra di loro. Nel lavoro vogliamo il capo che non stiamo dietro a vedere il nostro pc ma davanti a mettere la faccia di strategia e azioni. Tutti responsabili.

Questa dovrebbe essere la buona scuola e il buon lavoro di ogni mattina, no?


mercoledì 20 maggio 2015

Buon compleanno Statuto dei lavoratori

Oggi il fatto pubblico è che il 20 maggio 1970 nasceva lo Statuto dei lavoratori, legge fondamentale sul lavoro in Italia che già al primo articolo stabilisce la libertà di opinione del lavoratore, che non può essere oggetto di trattamento differenziato in relazione alle sue opinioni, politiche o religiose. All'articolo 4, invece, contiene il "divieto di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza".

Erano gli anni in cui non si poteva fare capannello per parlare di politica o svolgere attività sindacale. Erano gli anni che seguivano quelli in cui una donna incinta poteva essere licenziata.

Trasecoliamo noi oggi, vero?, ma non è faccenda solo di ieri, visto che per moltissimi stagisti, lavoratori con contratti a progetto, interinali, a tempo determinato la faccenda non è poi così diversa o lontana. Cambia la cornice, cambiano gli abiti da lavoro, cambia la pettinatura ma il corpo di norme sul lavoo va rivisto alla luce del nuovo contesto sociale e politico. E bisogna far presto, anzi ora è già tardi, cari sindacati e aziende e lavoratori e politici: Marta aveva un contratto di lavoro per un anno in una grande azienda di servizi, alla notizia del matrimonio le hanno fatto notare che avrebbe dovuto dichiararlo al momento dell'assunzione anche se era ancora incerta, il viaggio di nozze è stato spostato perché il periodo coincideva con quello di un suo collega a tempo indeterminato e le è stato detto, tra il serio e il faceto, di non fare subito figli, poi il carico di lavoro giornaliero è aumentato, le spiegazioni sull'attività da svolgere nulle, i saluti nessuno, gli errori all'improvviso tanti... Marta ha mollato e tra poco si sposa, disoccupata ma felice a tempo determinato.

Questo è il fatto privato, e finché resta privato continuiamo a sbagliare e a festeggiare compleanni che ci fanno solo più vecchi e non più saggi.




mercoledì 8 aprile 2015

Lo smart working? Come la vocazione per i sacerdoti

Su Twitter è #lavoroagile15 e in pochi caratteri vengono fuori le esperienze di aziende che producono tecnologia per comunicare e quindi lavorare a distanza, quelle di telelavoratori felici, le riflessioni di chi ha partecipato alla seconda edizione della Giornata del Lavoro Agile promossa dal Comune di Milano il 25 marzo scorso, chi vorrebbe ma non può, chi lascia un commento citando perfino l'esperienza dei sacerdoti "nessun timbro di cartellino, solo una grande vocazione e dedizione alla propria missione".

E' lo smart working, insomma, la possibilità di lavorare in modo flessibile nei tempi, negli spazi, nell'organizzazione.

Devo ammetterlo, allo smart working paragonato al modo in cui compiono la loro missione i sacerdoti non avevo ancora pensato, e certo è affascinante, perché richiede di essere un lavoratore maturo e consapevole che non ha bisogno del controllo di capi e azienda ma che resta fedele e responsabile mentre porta a termine il progetto... Viceversa, anche all'azienda si richiede un atto di fede, appunto, nell'affidare compiti e iniziative senza ansie e richieste di stato avanzamento lavori ogni giorno.

Tuttavia è rischioso pensare allo smart working solo in questi termini, perché proprio i detrattori di questa modalità di lavoro più flessibile potrebbero ravvisare i rischi di "essere sempre sul pezzo", "non staccare mai", insomma lavorare senza tempo e senza luogo proprio come fanno i sacerdoti, almeno quelli da manuale.

Secondo l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano, in Italia solo l’8% delle aziende ha adottato pienamente il modello di lavoro “smart” di organizzazione del lavoro. Eppure già oltre metà degli impiegati, quadri e dirigenti lavora per almeno parte dell’orario secondo questa nuova modalità.

Come dire, già siamo in qualche modo sacerdoti di una nuova modalità di lavoro, sta a noi farla diventare mentalità senza cascarci dentro e farci male. Al contrario, usando i vantaggi che porta con sé per vivere in modo equilibrato ogni impegno giornaliero, recuperare entusiasmo per il lavoro e gli affetti, dare una mano all'ambiente riducendo spostamenti non sempre necessari, dare valore alle relazioni d'ufficio anche fuori ufficio. Insomma, credere che tutto questa sia possibile, proprio come i sacerdoti.

Per scoprire come fare e perché farlo sto preparando un audio documentario raccogliendo molte voci diverse che hanno accettato di ragionare con me sui pro i contro di un lavoro che mai come oggi richiede di essere ripensato nelle forme e nei tempi per essere di più dalla parte di chi lo svolge, lo cerca, lo vive senza volerlo subire.



giovedì 2 aprile 2015

Silvia e Teresa, donne sfacciate

Silvia lavora in panetteria, il pane non lo fa ma lo vende. E' giovane, sposata, ha un bambino piccolo. Qualche settimana fa si ammala, influenza che dura, ricovero in ospedale, niente di grave ma continuano anche oggi gli accertamenti per scoprire come mai sia tanto debole. Maria non ha un contratto, è "in prova", è andata al lavoro con la febbre e teme di perderlo.

Teresa lavora in una multinazionale e si occupa di finanza, è single, laureata, da ieri in malattia. Ha un contratto a tempo determinato e poco tempo per fare i controlli che vorrebbe: l'influenza quest'anno è particolarmente fastidiosa, le chiedono "quanto hai?" e non si riferiscono all'età, non sarebbe politically correct. Se la risposta è 38 non c'è sanzione sociale e si resta a casa con la coscienza tranquilla, se il numero è più basso "non è febbre" e si può fare squadra anche nell'esperienza virale.

In entrambi i casi la malattia non è un diritto ma un fastidio per la micro o macro organizzazione, in nessun caso però si sospetta l'assenteismo: troppo poco tempo in panetteria per Silvia per innescare un fenomeno, troppo tempo in azienda per Teresa per destare sospetti sulla sua produttività e sul suo senso di appartenenza. Eppure.

Eppure più di controlli, medico fiscale, allontanamenti dal posto di lavoro vale lo sguardo della società a cui forse danno fastidio: le colleghe di Silvia e l'open space di Teresa non perdonano, basta un giorno perché le due ragazze che ricevono le telefonate "carine" dei compagni di giornata siano etichettate comunque come deboli, inutili, problematiche. In un attimo le lunghe serate dietro report in inglese e la solerzia a servire fino all'ultimo cliente la vigilia di ogni giorno di festa sono state dimenticate.

A me viene il sospetto che sia proprio la malattia in sé a fare paura e anche una banale influenza deve essere allontanata: non ci si può ammalare nel frenetico mondo in cui tutti devono servire a qualcosa. Le persone che si fermano, loro malgrado, devono essere fermate a loro volta.

Silvia e Teresa sono donne sfacciate, non lo sanno ma stanno provocando reazioni nei loro ambienti di lavoro. Quindi grazie e buona guarigione.






sabato 7 febbraio 2015

I racconti del lavoro invisibile, segnalazione d'ascolto

Siete già andati a vedere, ascoltare, partecipare a I racconti del lavoro invisibile, alla Casa internazionale delle donne a Roma? Dal 29 gennaio un percorso multimediale sul lavoro e sul lavoro al femminile per capire come le donne in fabbrica, per esempio, hanno trasformato il modo di lavorare e le richieste degli uomini.

Prossimi appuntamenti, il 12 febbraio con Il lato invisibile della migrazione e il 19 febbraio con Mi piego ma non mi spezzo. Io sarò lì il 19 febbraio dal pomeriggio per ascoltare tutto d'un fiato l'audio documentario "Interim" del mio amico Jonathan Zenti e mettere alla prova tesi e antitesi di un mondo del lavoro che cambia eppure sembra rimanere immobile di fronte alle esigenze più semplici di pari dignità e rispetto, soldi e diritti.










venerdì 28 novembre 2014

Valore D, punto della situazione

Il 19 novembre sono stata alla Luiss di via Pola a Roma in ascolto delle donne manager al terzo Forum Nazionale di Valore D

L'associazione di grandi aziende nata nel 2009 per promuovere il ruolo della donna nell'impresa e spingerla ai vertici, donna e impresa, ha chiamato a raccolta imprenditrici, ministri, direttori del personale, consulenti.

Interessante perché il fatto di essere femmina si dava per scontato e ci si concentrava su come migliorare l'Italia tutta, dentro e fuori i confini. Interessante perché la collega più preparata e dall'approccio scientifico che avevo accanto si emozionava a scoprire la storia di donne di successo in ambito privato e pubblico, donne che avevano avuto più opportunità di me e lei, certo - chi imprese ereditate, chi l'inglese e i viaggi facili - ma non importa, vincono determinazione e merito e coraggio. E mentre lei si riempiva gli occhi e le orecchie di facce e di nomi, un'altra doveva lasciare la sala anzitempo per riprendere il figlio a scuola e un'altra aveva già lasciato il dolce al buffet perché richiamata in ufficio... Ed ecco lui, ancora una volta, sempre al maschile l'impedimento che invece è risorsa straordinaria per fare cose straordinarie senza ansie e traffico mentale, se solo lo si lasciasse stare: il tempo.

Il tempo di una stretta di mano e due sorrisi e via verso altre sale, incontri, consessi umani, famiglia certo, progetti comunque. Quanta fiducia ripongo allora nella ricerca McKinsey presentata da Giorgio Busnelli, in pratica la dimostrazione che i servizi pensati per il benessere del dipendente portano un misurabile beneficio economico anche alle aziende e che tra questi quello più richiesto è semplicemente, banalmente, il bene più prezioso, sempre lui, il tempo, leggi flessibilità di orario. Che non è part time o telelavoro, non è un lavoro flessibile ma gestione responsabile del lavoro valutato per obiettivi e questioni di merito. Il gelato era proprio buono, peccato che la collega non abbia fatto in tempo ad assaggiarlo.

Questo il programma della giornata e sui tweet accanto alcune istantanee fra foto, link e grafici. E scoprite come proprio su Twitter @Ale_Nigro abbia sintetizzato in un disegno il workshop sul welfare a cui abbiamo partecipato:-)



sabato 4 ottobre 2014

Tre però per il prof De Masi

Renzi oggi dichiarava "c'è da riparare il mondo del lavoro", ieri io finivo di leggere Il futuro del lavoro, saggio del sociologo Domenico De Masi del 1999.

E la premessa De Masi la mette alla fine:

"Questo libro, che tratta di lavoro organizzato, nasce dal mio odio per la fatica fisica o intellettuale che sia, dalla mia insofferenza per le organizzazioni piramidali e per i capi di qualsiasi genere, dalla mia frustrata aspirazione all'ozio".

E noi l'avevamo capito, prof De Masi, e siamo pure con lei. Però. Però qui non si vive ancora il tempo liberato dal lavoro di cui lei individua i tratti principali in questa nostra società postindustriale, la fatica c'è eccome ed è sia fisica sia intellettuale, quando il tempo è tanto coincide con la disoccupazione che non fa piacere e non spinge alla creatività, tempo di lavoro e tempo di non lavoro non coincidono nella testa e nelle organizzazioni di cui facciamo parte, alcuni di noi almeno, tanti altri il tema non lo sentono proprio.

Però. Però io voglio crederle e metterò alla prova le mentalità vecchie con le possibilità nuove offerte da questi nostri tempi incerti, voglio rischiare di fraintendere lavoro e ozio, di non distinguerli più, di lavorare e giocare insieme, lo sto già facendo. Di celebrare riti in cui resto consapevole e che scelgo liberamente, per esempio la mensa aziendale tutti insieme alla stessa ora.

Però. La invito allora a prendere con me e con centinaia di altre persone la metropolitana di Roma alle 8.00 di mattina e a chiedere a tutti se quel giorno in cui noi due sceglieremo di andare avrebbero potuto lavorare da casa liberando tempo, ossigeno, ingegno dalle loro teste, computer, organizzazioni. E' solo un esempio.






domenica 21 settembre 2014

La parabola del lavoro

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli questa parabola:
«Il regno dei cieli è simile a un padrone di casa che uscì all’alba per prendere a giornata lavoratori per la sua vigna. Si accordò con loro per un denaro al giorno e li mandò nella sua vigna. Uscito poi verso le nove del mattino, ne vide altri che stavano in piazza, disoccupati, e disse loro: “Andate anche voi nella vigna; quello che è giusto ve lo darò”. Ed essi andarono. Uscì di nuovo verso mezzogiorno e verso le tre, e fece altrettanto. Uscito ancora verso le cinque, ne vide altri che se ne stavano lì e disse loro: “Perché ve ne state qui tutto il giorno senza far niente?”. Gli risposero: “Perché nessuno ci ha presi a giornata”. Ed egli disse loro: “Andate anche voi nella vigna”. Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore: “Chiama i lavoratori e dai loro la paga, incominciando dagli ultimi fino ai primi”. Venuti quelli delle cinque del pomeriggio, ricevettero ciascuno un denaro. Quando arrivarono i primi, pensarono che avrebbero ricevuto di più. Ma anch’essi ricevettero ciascuno un denaro. Nel ritirarlo, però, mormoravano contro il padrone dicendo: “Questi ultimi hanno lavorato un’ora soltanto e li hai trattati come noi, che abbiamo sopportato il peso della giornata e il caldo”. Ma il padrone, rispondendo a uno di loro, disse: “Amico, io non ti faccio torto. Non hai forse concordato con me per un denaro? Prendi il tuo e vattene. Ma io voglio dare anche a quest’ultimo quanto a te: non posso fare delle mie cose quello che voglio? Oppure tu sei invidioso perché io sono buono?”. Così gli ultimi saranno primi e i primi, ultimi».

Per la prima volta da quando sento questa parabola, stamattina in chiesa ho temuto ci fosse qualcuno che volesse strumentalizzarla. Forse lo ha già fatto.

Buona domenica.


venerdì 19 settembre 2014

Supermercato e The Truman Show

Mentre governo e sindacati discutono sulla riforma del lavoro e finalmente se le dicono senza ipocrisie, qualche giorno fa io sono andata in un supermercato poco fuori città aperto da poco. Non volevo comprare, però, almeno non come prima cosa, ma fare la sorpresa a un amico che non vedevo da anni. E la sorpresa me l'ha fatta lui raccontandomi un mondo che non conosco, quello della GDO, la grande distribuzione organizzata e di come lui lì dentro ci stia proprio bene. Tensioni e imprevisti compresi, naturalmente, altrimenti non saremmo umani ma spot pubblicitari, scusate pubblicitari.

Mentre ogni giorno mi risuonano le difficoltà e i lamenti degli amici alle prese con la precarietà organizzativa e sentimentale pure se hanno un posto fisso a casa e sul lavoro, mi riporto a casa una faccia stanca ma convinta che sia possibile costruire anche se un'azienda non è la tua, scegliendo colleghi che non devono per forza essere amici, acquisendo diritti tra i reparti e trovandoli nel contratto, insieme, alla faccia di Renzi e della Camusso.

Certo, il rischio di ogni organizzazione stringente è un po' The Truman Show, cioè un mondo parallelo e controllato, dove ti par di essere felice ma neanche la "go pro" la porti in testa tu. Diceva il regista nel film: "Ascoltami Truman, là fuori non troverai più verità di quanta non ne esista nel mondo che ho creato per te...". Insomma un mondo chiuso, sua forza e sua salvezza.

Ed ecco la necessità di aprire quel mondo, cioè raccontare l'ambito e le persone, non i prodotti che già hanno la loro pubblicità e i loro scaffali, provare a scardinare certezze e barattoli mantenendo il sorriso e il clima sereno e portarli fuori, alla prova con gli altri mondi reali. Ché altrimenti anche la riforma del lavoro interessa solo a pochi, l'articolo 18 è una merce, le tutele crescenti sono come le crema solari ad esposizione progressiva prima di mettersi al sole, accanto ai parei ma pochi si possono permettere il mare.




lunedì 18 agosto 2014

Ad Amsterdam col registratore

Ho portato il registratore per farmi compagnia, è questa la verità. Ci sono andata da sola, anche questa è la verità, con la presunzione, che fa rima con disperazione, che persone e storie le avrei incontrate comunque: estrema fiducia nella città reticolare, nella Provvidenza, nella parola "occasione" che quest'anno ho capito cos'è, non appunto solo una parola.

E ad Amsterdam il registratore l'ho acceso, un giorno e anche quello successivo, ho messo le cuffie e ho iniziato a pensare in un'altra lingua.

Con 16 gradi ho dovuto far finta di non sentire il sudore sulla maglia per aver interrotto il lavoro di un lavavetrine e la felicità per aver rotto il ghiaccio, quasi senza che fosse una metafora. Ho continuato nei negozi e al mercato a fare domande sul tema lavoro per un prossimo lavoro audio sul tema, ma non è questa la cosa importante.

Foto A. Rapone, vetrina libreria Athenaeum
Gli olandesi sono concentrati mentre corrono in bici e scelgono cosa comprare al mercatino delle pulci, non ti chiedono chi sei e dove andrà a finire la loro voce, in un certo senso non ti osservano ma si fidano, sono lusingati e abituati a essere internazionali, restano imperscrutabili. E capita che alla prima e più facile domanda "What's your name?" l'astuto venditore di roba usata risponda convinto "My name is Nobody".

Ancora una volta il registratore è stato il mezzo per entrare in contatto con persone diverse in diversi contesti, per uscire dalle difficoltà di sentirsi straniera pure se turista e quindi non in crisi di identità, per giocare con la lingua inglese che faceva da ponte tra l'italiano e l'olandese. Divertente e molto interessante.

Non vedo l'ora di realizzare il documentario audio per dire ancora grazie alle persone che hanno accettato di fermarsi per parlare con me.







giovedì 7 agosto 2014

Il tempo di lavoro... fuori ufficio

Passando da Facebook a Linkedin, dallo svago al professionale se vogliamo, leggo l'articolo Out of Office di Fabio Salvi, che lavora nelle risorse umane e che a quanto pare le considera davvero risorse, e soprattutto umane.

Mi spiego, il nocciolo della questione è ancora una volta il tempo di vita e il tempo di lavoro, per cui le aziende si rompono la testa per cercare una "conciliazione" che nell'articolo, negli esempi europei come Germania e Olanda e nella testa di molti, è già possibile non facendo dipendere la produttività dalle ore lavorate ma dai risultati raggiunti. "Ore lavorate", leggi ore trascorse in ufficio, ché non sempre la timbratura prima e dopo coincide col fare, né col pensare.

Insomma, si tratta di un investimento in responsabilità condivise, in partecipazione, in fiducia. Senza perdere il controllo dei tempi e delle attività ma al contrario con un maggiore tempo dedicato alla pianificazione e all'organizzazione del lavoro così come alla misurazione degli obiettivi. Forse sta qua il primo inghippo da superare, la tendenza a lasciare che tutto scorra come sempre è accaduto e chissene se il Pil non cresce, se poi ho l'ansia nel fine settimana o se leggo le mail di lavoro tutto il giorno o la notte che sia.

Il secondo inghippo è di tipo culturale ed è la difficoltà a superare un modello di lavoro basato solo sugli orari e un modello di vita in cui solo se si torna a casa stanchi e stropicciati si è stati produttivi e utili, a chi?

E' il tempo il bene più prezioso e noi continuiamo a maltrattarlo e quindi a farci del male. Abbiamo paura di essere presi per fannulloni, o rivoluzionari, o idealisti, ci vergogniamo anche solo di pensare ad altri riferimenti e stili di vita possibili, dentro o fuori ufficio. E ancora una volta perdiamo tempo.

Domani scriverò anche io "Out of Office", fuori ufficio, in vacanza.