lunedì 3 luglio 2017

Ancora su Fantozzi: il lavoro, le parole e i suoi tempi

Stiamo peggio oggi o ai tempi di Fantozzi?

Alessandro Gilioli su l'Espresso non dà l'altra opzione, non cerca un meglio possibile, esiste solo il peggio e il meno peggio: è dentro questa categoria che si può scegliere, forse. Il titolo del pezzo dedicato alla scomparsa di Paolo Villaggio si muove infatti nella consapevolezza che il lavoro ai nostri tempi sia un orizzonte precario, fatto di situazioni fasulle e di linguaggi che alterano volutamente la realtà.

Quello che manca oggi è l'azienda, la solidità di un contratto e di uno stipendio, l'abitudine rassicurante di incontrare le stesse facce di ogni giorno e di provare gli stessi sentimenti anche di odio, l'odio era ammesso ai tempi di Fantozzi.

L'articolo non fa sconti e allo stesso tempo non approfondisce, ma chissà quante volte abbiamo sentito i racconti di genitori, amici più grandi, noi stessi allo specchio del bagno per sapere che è tutto vero e che possiamo chiuderlo proprio noi, il pezzo coi pezzi di realtà mancante.

L'odio di Fantozzi era un sentimento, un legame, una forma di affetto perverso in tempi che non sapevano cosa fosse l'engagement e l'outdoor - uso altre parole per variare quelle dell'autore:-) - in cui si lodava il golfino di lana fatto a maglia per la nipotina della collega amica, perché di fondo si riconoscevano precise carte d'identità, cose persone, ruoli e soprannomi. A pelle non mi sarebbero piaciuti i golfini di lana così la pelle prude ai fuori porta che non siano gite fra amici.

"Non si riesce più nemmeno a ridere, parlando di lavoro, oggi". Finisce così l'articolo, ed è agghiacciante. Bisogna però continuare a narrare il lavoro, cercare le chiavi per riderne e piangerne insieme.







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