mercoledì 18 dicembre 2013

Ancora sulle lingue

Bene, in questi giorni di rigurgito linguistico dentro di me - vedi i post precedenti - e quindi di appassionante riscoperta dell'importanza di muoversi tra le lingue per arricchire la propria personalità e la propria identità - non sarei me stessa senza poter parlare anche in tedesco, senza voler imparare qualche parola in turco prima di andare a Istanbul e di polacco prima di andare a Varsavia, e le presunte difficoltà neanche le considero - ecco l'articolo di Anna Maria Testa Perché due lingue sono meglio di una su Internazionale che mi conforta e mi preoccupa un po'.

Mi conforta perché "considero valore", facendo il verso a una nota poesia di Erri De Luca, riconoscere ed esprimersi in lingue diverse dalla propria, mi preoccupa perché mette insieme plurilinguismo e bilinguismo, il primo faccenda storica, il secondo anche solo frutto inconsapevole di una scelta d'amore.

Le nazioni moderne sono nate con lo stabilizzarsi di una lingua sulle altre lingue grazie alla stampa e alle convenienze commerciali, averne una come riferimento era utile e funzionale alla formazione di una comunità riconoscibile. Nella ristretta comunità di una famiglia in cui lui è austriaco e lei italiana e che vive a Barcellona - prendo come esempio una coppia di amici - chissà in quale lingua si esprimerà il piccolo nato, probabilmente in catalano riconoscendo i suoni di entrambe le lingue di provenienza dei genitori e scegliendo poi quella che risulterà funzionale, che non vuol dire solo utile, alla sua vita. O forse no, le scelte sono più fluide anche se mai senza difficoltà.

Conoscere due lingue anziché una sembra sia sempre un vantaggio, dai link e dai dati che riporta Testa nel suo articolo, io vorrei aggiungere che anche se i nostri genitori parlano una lingua soltanto e siamo cresciuti nella piccola Italia, riottosa a imparare e parlare bene anche solo l'inglese, possiamo farcela, possiamo gustare le lingue degli altri aprendo il cervello a suoni ed esperienze diverse dalle nostre.

Mi vengono in mente i bambini Saharawi che conosco d'estate in un programma di accoglienza e ospitalità: invasi dal Marocco nel 1975, già colonizzati dagli spagnoli, accolti in Italia e Spagna ormai da anni e da Cuba con la scusa di formazione universitaria, a contatto col francese di Algeri visto che il campo profughi più grande che li accoglie, Tindouf, è in territorio algerino, si esprimono in arabo hassania che non è l'arabo che ti insegnano i vicini di casa egiziani o l'università, eppure. Eppure capiscono le altre lingue e l'italiano lo imparano facilmente e bene, e i loro genitori dalla forte identità culturale hanno nel loro vocabolario lo spagnolo e il francese e li usano all'occorrenza, senza far confusione di quale sia la loro lingua identitaria e perché ci rimangono attaccati pur vivendo nella modernità di una città-tendopoli di cui il mondo poco o niente si interessa.





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